martedì 14 gennaio 2014

L'arma a doppio taglio della critica italiota



Difficile trovare un paese più tagliato per la critica. L’Italia, luogo che, è risaputo, è abitato da un esercito di tuttologi, riesce meglio di altri ad assorbirne i deliri.
Sia chiaro, il problema della critica non è criticare, e neppure esprimere un’opinione, quanto piuttosto pontificare come dogmatica la propria opinione.
Proverò qui a comportarmi da critico, ma contro i critici o presunti tali.
Si tratta di un gioco, di una piccola palestra contro la feccia intellettualoide italiota.

Partirei dalla critica cinematografica, uno dei campi in cui il critichintellettualoide dà il meglio di sé. Sarà che un film dura mediamente tra un’ora e mezza e due ore, e quindi è più facile da “assimilare” rispetto ad un libro, che richiede impegno maggiore (e che per questo, talvolta, si evita a priori di leggere, ma non ci si risparmia comunque di criticare).
Basta farsi un giro su Internet per trovare in azione il nostro caro esercito di critici cinematografici, esperti e, soprattutto, fautori della famosa teoria “iosapreifaredimeglio”. 

Ribadisco, il problema non è avere un’opinione ed esprimerla, perché questo è un diritto sacrosanto. I problemi iniziano quando la critica diviene lo sterile spunto per un’opera pantadenigratoria, in cui tutto è male, ogni cosa fa schifo, specie se esce da un contesto diverso dall’underground, dal sottoindipendente, dal parasvangapalle.
Ci tengo a precisare che io non sono contro i critici in toto, non sono neppure contro i critici che esprimono un’opinione diversa dalla mia. I critici, in fondo, sono un male necessario che, con la loro opera di natura parassitica permettono di riempire pagine di giornali, che io personalmente sono ben lieto di leggere, visto che non ho nulla da fare. Così facendo pubblicizzano opere di chi è invece abituato a metterci la faccia nel lavoro, e magari riescono ad incuriosire me e la massa come me. Nietzsche diceva che in fondo i critici sono come gli insetti, vogliono il sangue, non il dolore. E mi pare una definizione calzante.

Ma non posso esimermi dal provare odio nei confronti di quelli che definirei "critici dogmatici". In sostanza, coloro che sanno sempre e che non hanno dubbi mai. Semplice immondizia che naviga nella cultura perché "è bello dirlo", abituata ad evitare qualunque tipo di espressione gradevole, quale "a mio avviso", "a mio parere", "dal mio punto di vista", "secondo me", "penso che", "reputo che", "ritengo che", "in base alla mia opinione", etc.
Coloro che preferiscono il perentorio a locuzioni di questo tenore, già risultano indisponenti e ridicoli per definizione.

Poi, ovviamente, neppure questo basta a fare di un criticante un critico degno di rispetto: la professione del critico è qualcosa di più profondo, di più complesso. Anzitutto richiede una consolidata cultura, non semplicemente accademica, ma di vita.

Non è facile essere credibili, se poco o niente si è fatto, se non parassitismo sulla schiena altrui. Per fare un esempio concreto, leggere delle pagine di critica letteraria scritte da Andrea Zanzotto suonerà evidentemente più autorevole rispetto alla lettura di una critica scritta da quel tal giornalista che scrive per quel tal giornale e che, se non ricordo male, ha scritto un solo libro nella sua vita, smontato dalla critica, per cui ora è interesse di quel certo giornalista-critico vomitare il suo astio nei confronti di tutto ciò che possa valere qualcosa.
Avrei voluto parlare di critica cinematografica, senza volerlo sono arrivato alla critica letteraria. Ma in fondo la critica è sempre critica, c’è quel filo che lega i detrattori di ogni arte e che ben si può adattare a musica, cinema ed arti letterarie. Senza lasciare indietro pittura e fotografia.

Da un occhio esterno, quando si ha a che fare con i dispensatori di verità, si ha sempre l’impressione di trovarsi dinanzi più a personaggi frustrati per essere rimasti relegati alla loro etichetta di accademici snob che amano crearsi un’aura di cultura intorno al sentito dire nei polverosi ambienti dei salotti “culturali”, che non a dei veri e propri critici in grado di fare il loro mestiere.
In Italia, il modo migliore per essere considerati positivamente da queste strane creature di tipo umanoide pare essere l’aver ormai trapassato la propria esistenza, perché sotto un metro di terra improvvisamente si diviene interessanti, forse perché innocui ed insensibili alle vagonate di merda (cosa che trasformerebbe automaticamente la critica negativa in qualcosa di inidoneo a giungere allo scopo primario), oppure restare nell’ombra. Perché solo nell’ombra si vale qualcosa. Altrimenti, automaticamente, si diviene commerciali, prodotto per masse, insomma qualcosa da disprezzare. Bello finché nessuno ti considera, ma improvvisamente da stroncare appena qualcuno si accorge di te.
Perché? Perché l’Italia vive, più che altrove (questa scuola esiste comunque in ogni dove) di stroncatura del tutto?
Forse perché qui non abbiamo dei grandi critici. Ne abbiamo tanti, tantissimi, certo, ma pochi valgono qualcosa.

Non è certo un buon critico quello che pretende di lodare soltanto, per partito preso, registi indo-pakistani trapiantati a San Benedetto del Tronto che hanno appena prodotto un documentario sulla lunghezza del cazzo dei pinguini delle Galapagos, che è riuscito a portare in sala due persone inclusi il regista e il montatore.
Con questo non voglio dire che un simile documentario non possa essere apprezzabile, magari è un capolavoro, ma non fossilizziamoci continuamente sull’invidia per la riuscita altrui, che senza indugio pare obbligarci a smontare, a denigrare il successo. Quella non è critica, è frustrazione.
Quale credibilità potrà avere mai il critico frustrato? Quel tale che avrebbe voluto diventare uno scrittore di successo ma che, non potendo, distrugge gli altri? O quel tizio che si crede un grande esperto di musica perché lavora in un negozio di dischi e sa esprimere la sua, perentoria e dogmatica, opinione (ma non ditegli che si tratta di un'opinione, poiché l’opinione è per definizione opinabile e dunque subiettiva) prima ancora di ascoltarli? Quale autorevolezza può avere un giornalista salottaro? La risposta è semplice, nessuna.
Giochiamo un po’ con loro, applichiamo il loro stesso metodo alla nullità delle loro esternazioni. Cominciamo a considerarli credibili, eventualmente, solo dopo morti.
Caro critico, ma chi ti credi di essere, De Sanctis? Croce? Non mi pare che tu sia uno di questi. Sei Fortini? No, non mi pare. E allora, lasciatelo dire. Non vali un cazzo.

P.S. La trivialità è parte integrante ed irrinunciabile del ragionamento. Chiedo scusa al pubblico più fine, ma anche questa è ostentazione di italianità.

credito immagine: dailystorm.it

sabato 11 gennaio 2014

Quindici anni fa si spegneva Fabrizio De Andrè

Sono trascorsi quindici anni dalla morte di Fabrizio De Andrè, vera e propria icona della musica italiana, cantautore e poeta, per quanto lui non amasse quest'ultima etichetta, tra i più amati della storia.
Era la notte dell'11 gennaio 1999, quando in una fredda Milano si spegneva questo grande interprete della società e del sentimento, strappato alla vita da un cancro ai polmoni.

Verrebbe da chiedersi cosa sia rimasto di lui, della sua eredità, a tre lustri di distanza da quel giorno. Verrebbe da rispondersi, forse banalmente, tutto.
Tutto perché Faber è vivo, vive sono le sue canzoni, vivo è il suo ricordo, ancora risuonano i suoi capolavori, le sue ballate e i suoi testi struggenti.
Non passa, non può passare il tono talora allegro, più sovente malinconico, che pervade la musica di questo maestro.

Così, non resta che omaggiarne il ricordo, ancora, non oggi in quanto anniversario, ma ogni giorno, in quanto ogni nota del cantautore genovese merita di essere omaggiata, riascoltata, riscoperta. Sempre.

venerdì 10 gennaio 2014

Nuove nomination per "La Grande Bellezza" di Sorrentino



Questa non è una recensione, anche perché cadrebbe con una tempistica decisamente fuori tempo massimo.
Non mi soffermerò dunque sul film in sé, che non necessita più di presentazioni (e che molti avranno ormai avuto modo e fortuna di vedere).
Quanto più interessa, ora, è la serie di candidature, strameritate, che fioccano da ogni dove.
Solo nell’ultima settimana sono arrivate quella in Spagna al premio Goya (come miglior film europeo) e quella inglese ai BAFTA per miglior film non in lingua inglese (che si aggiunge alle altre candidature britanniche, ai London Critic Circle Film Awards e ai BIFA). E, nel frattempo, negli USA viene sfondata la “soglia psicologica” del milione di dollari di incasso.

“La Grande Bellezza” è il miglior film del regista partenopeo Sorrentino, che già aveva toccato alti livelli con lavori come “Le Conseguenze dell’Amore” e “This Must be the Place”. Ora, mentre instancabile si cimenta con un nuovo film (“In the Future”, con Michael Caine), che dovrebbe uscire nel 2015, ecco la pioggia di nomination (che si aggiungono alle molte altre e ai premi già vinti).
Uno spaccato disincantato della decadenza quotidiana del nostro Paese, ma soprattutto un film che è una serie interminabile di spunti di riflessione, di immagini talora di felliniana memoria, di silenzi e di dialoghi perentori, di considerazioni universali sulla vita e particolari sulla società, sotto il segno del miglior Sorrentino, quello che abbiamo ormai imparato a conoscere e ad amare.
Il tutto unito ad una interpretazione magistrale di Toni Servillo, ma anche di Carlo Verdone e di Sabrina Ferilli, tutti già vincitori del Nastro d’Argento (come miglior attore protagonista e come migliori attori non protagonisti).
Chi scrive non è un critico cinematografico e si guarda bene dall’esserlo. Chi scrive lascia parlare i suoi sentimenti e le tante, tantissime riflessioni che da questo capolavoro, è il caso di dirlo, scaturiscono.
Per questo, vedere che finalmente il cinema italiano ritrova prepotentemente e meritatamente quell’attenzione internazionale a lungo negatagli, non può non donare un senso di orgoglio.
Sperando che i riconoscimenti internazionali si concretizzino, ed aspettando di sapere se “La Grande Bellezza” potrà rappresentare degnamente il nostro cinema anche alla Notte degli Oscar (l’annuncio delle nomination si avrà giovedì 16 gennaio), l’Italia si gode, finalmente, il ritorno nel ruolo che le spetta nel mondo del cinema. Grazie a Paolo Sorrentino.

immagine: locandina cinematografica
credito: comingsoon.it

mercoledì 1 gennaio 2014

Il mandolino e l'italianità perduta

Il naufragio dell'italianità del mandolino è la malsana conseguenza del luogo comune: dallo strumento simbolo dell'Italia per antonomasia, esso ha finito per vedere il suo nome legato a vicende a dir poco negative, sino addirittura a vedersi spodestato del suo ruolo e relegato a simbolo della mafia.
Questo versatile ed ottimo strumento musicale a corda ha perso così la sua stessa ragion d'essere, costretto, come tanti compatrioti, ad emigrare altrove, dove le sue potenzialità fossero più apprezzate.
Così come avviene, solo per citarne alcuni, in Germania, in Giappone e, soprattutto, negli Stati Uniti, dove il mandolino è considerato per ciò che è, cioè un fedele amico del musicista professionista come del dilettante, in grado di far assaporare tra le sue corde il gusto di un Vivaldi, come di una canzone popolare, di una ballata rock come di un ruvido blues. Perché questo è il mandolino, strumento in grado di cantare (perché il mandolino non si suona, si canta) una musica colta come una musica decisamente più country (non per nulla, negli States le sue corde abbracciano prevalentemente il genere bluegrass).

Il fastidio ed il senso snobbistico che nutre l'Italia verso questo suo "figlio" è decisamente immotivato, per quanto certo la macchietta dell'italiano sempre affiancato al suo mandolino abbia contribuito, ad un certo punto, a farci storcere il naso e a lasciare lo strumento alla polvere, decaduto in un oblio incolpevole.

Anche la diffusione della pratica mandolinistica in Italia è qualcosa di pressoché inesistente. E tutto ciò, nonostante esistano dei veri amanti dello strumento che ancora cercano di farne apprezzare le potenzialità (molti dei quali confluiscono nella FMI, Federazione Mandolinistica Italiana). Ma è alla pratica da autodidatta che mi riferisco, in particolare. Quella che oltreoceano può contare su numerosi punti di riferimento, sia attraverso centinaia di pubblicazioni specifiche (per il 99% in lingua inglese; tra esse, una delle più complete per il principiante e l'intermedio appartiene alla fortunata serie "for Dummies", si intitola "Mandolin for Dummies" ed è scritta da Don Julin), sia attraverso la risorsa internet, che spazia da più o meno interessanti video su Youtube, sino a portali dedicati alla passione per l'otto corde, quali Mandolin Cafè
Per notare come ormai il mandolino sia uno strumento ben poco italiano, basti considerare che il materiale in lingua italiana per avvicinarsi alla pratica rappresenta una partizione misera della minima parte del totale dei metodi.
Qualcosa abbiamo anche noi, è vero, ma è ben poca cosa se paragonato alle risorse in lingua inglese, non solo più numerose, ma anche più complete. Spulciando tra i tanti metodi funzionali per il principiante, ci rendiamo conto addirittura che non solo la lingua inglese, ma anche la lingua francese, offrono più dei prodotti in lingua italiana.

Ecco che allora sarebbe il caso di dire che il mandolino non appartiene più alla nostra cultura. Non così tanto, almeno, da poter rappresentare uno dei simboli della nostra musica.
Lo è stato nel passato, ma oggi, un po' per ignoranza, un po' per tutti quei luoghi comuni di cui già si è detto, è solo un piacevole tremolo tra le righe del "tutto il resto". E chi suona il mandolino è una mosca bianca, costretto troppo spesso a far passare in sordina questa sua passione, per quanto pochi strumenti siano in grado di dare ciò che dà il mandolino.

RISORSE UTILI PER IL MANDOLINISTA
Federazione Mandolinistica Italiana
Mandolin Cafè
Mandolin for Dummies



IL CAMBIO DI ROTTA DEL VIALE

Con l'arrivo del 2014, Viale Assurdo rinnova la sua offerta affiancando all'informazione culturale quella cosiddetta "anticulturale".
Si tratterà, in sostanza, di argomenti di attualità trattati ai limiti del politicamente corretto, evitando comunque di scadere in attacchi a persone specifiche.
Viale Assurdo diviene così, a tutti gli effetti, anche un blog di opinione.
Gli articoli di tale tenore saranno rubricati come "Calle degli Anatemi", e li troverete, come di consueto, nelle etichette qui sulla destra.

Alla stesura di tali articoli potranno collaborare anche i lettori. I migliori saranno pubblicati. Maggiori informazioni in merito prossimamente.