martedì 28 giugno 2016

Addio a Bud Spencer

Se n'è andato a 86 anni Bud Spencer, alias Carlo Pedersoli
Spendere molte parole su di lui appare superfluo, per questo non resta che ricordarlo come quel "gigante buono" che a suon di pugni riappianava le ingiustizie, sempre schierato dalla parte dei deboli e degli oppressi, fossero contadini o minatori sfruttati, indigeni, immigrati, animali... 

In coppia (nata per un "caso fortuito") con Terence Hill (Mario Girotti), che lo ha ricordato sulla sua pagina Facebook con un "Addio amico mio", è stato un caposaldo dell'esperienza cinematografica italiana, fortemente amato dal pubblico. Ha lavorato anche con grandi registi quali Mario Monicelli.
 
Un po' della nostra infanzia è volata via con lui...

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martedì 21 giugno 2016

Idioma a Nord-Est

L'esperienza poetica di quest'area d'Italia (ambito veneto - friulano) vede una innegabile tendenza al "bilinguismo". Molti dei poeti che hanno vissuto in queste terre si sono confrontati sia con la lingua nazionale, sia con gli idiomi locali.

Pasolini, prima di tutto, che è stato uno dei precursori della valorizzazione (e della identificazione stessa) del friulano, scrisse nella parlata casarsese e diede vita a quella che rimane la più importante iniziativa letteraria della storia del Friuli: l'Academiuta di Lenga Furlana, che tanto peso riveste tuttora nella conservazione del friulano di Casarsa. Basti pensare all'ultimo poeta ad essa direttamente legato, Ovidio Colussi, ma anche a quella lunga scia di poeti che ad essa, pur restandovi esterni, si sono comunque ispirati. E potremmo citare Giacomini, Cappello, Vit e altri che si esprimono in friulano e che di questa Academiuta sono sicuramente tributari.
Poi c'è stato il friulano "totalmente estraneo" alle dinamiche, anche indirette, di Pasolini e della sua Academiuta: ad esempio, uno su tutti, quello di Tavan, che nella parlata di Andreis ha regalato uno struggente esempio di "poesia sociale".
E, dalla Livenza al Piave, le esperienze venete, in primis quella del maestro Zanzotto, senza ombra di dubbio uno dei poeti più grandi del Novecento italiano, che ha dato impulso ad altri poeti riconosciuti a livello nazionale, tra cui Cecchinel. Oltre il Piave ecco Calzavara, altro poeta che si è fortemente confrontato con l'idioma locale e, tornando nell'area friulana, e anzi più specificamente giuliana, il maestro Biagio Marin e il suo veneto de mar nella parlata di Grado. Si può trovare persino, ma questa è più che altro una forzatura linguistico-letteraria, un tentativo di riproporre l'estinta parlata tergestina (l'antico dialetto romanzo della città di Trieste) da parte di Crico.

Quale possa essere il ruolo del dialetto nella poesia moderna, e quale sia il peso che questo assume in una certa area del Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la forza della poesia dialettale è anche quantitativa e non solo qualitativa, è un quesito a cui si possono dare risposte molteplici.

Quella, ad avviso di chi scrive, più convincente, non riguarda un'identità ma un'identificazione. L'uso delle parlate locali assume, in una terra come questa, una sorta di rivincita sociale di ciò che si è cercato più volte di cancellare. Questo è ancora più vero, probabilmente e nello specifico, per il friulano, che sottoposto ad una emarginazione "di classe" da parte degli stessi friulani (che la spinta borghese aveva portato a preferire il veneziano di terraferma), è poi rinato nelle periferie, lontano dai centri nevralgici del commercio regionale, ormai venetizzati (sorte che toccò alla stessa Udine), come, appunto, la Casarsa di Pasolini.
La valorizzazione successiva, che l'ha consacrata come "lingua", ha fatto il resto.
E poco importa se questa etichetta sia più politica che non squisitamente linguistica, oggi il friulano è lingua e basta, con tutto quel che ne consegue, a livello di conservazione e di valorizzazione. Purtroppo, non tutto è oro quel che luccica, perché il riconoscimento raggiunto ha richiesto comunque una certa "standardizzazione" ed una distinzione, conseguentemente, tra un fantomatico "friulano standard", individuato nella parlata dell'area sandanielese, sufficientemente estranea ai fenomeni di venetizzazione di pianura come alle contaminazioni germaniche e slave delle aree linguistiche contermini all'Austria ed alla Slovenia, e le varie "parlate locali", che in realtà non sono altro che l'espressione più reale del friulano, senz'altra definizione.
Qualsiasi standardizzazione che segue (o che precede) al riconoscimento di lingua è, agli occhi di chi scrive, una forzatura che andrebbe evitata. Se "lingua" significa avere un friulano di serie A (ufficiale???) e tanti friulani di serie B, meglio essere "dialetto".

Le dinamiche venete sono invece differenti, il veneto non ha conosciuto un vero e proprio riconoscimento a lingua, pur essendo stata la lingua, questa sì ufficiale, di uno dei più grandi Stati preunitari. Lingua ufficiale, certo, ma non sufficientemente standardizzata, neanche nel suo modo di scrivere (che è, a quanto pare, in fase di standardizzazione). Come dire, il veneto non è lingua perché non è stato ancora in grado di individuare il suo acmè letterario. Qualcuno lo individua nel veneziano di terraferma (per l'alto numero di parlanti), qualcuno nel padovano per il ruolo culturalmente dominante di questa città (sede, ricordiamo, della prima università del Triveneto e di una delle più antiche d'Italia), altri puristi persino nella parlata dell'isola di Burano "la più pura e meno contaminata". Una specie di San Daniele del Friuli rapportata al Veneto, con l'unica differenza che San Daniele del Friuli, oltre alla presunta purezza, è anche sede di una biblioteca storica che non ha paragoni in Friuli - ed ecco tornare la centralità culturale.

Qualunque sia la scelta, e a prescindere dalle etichette lingua-dialetto (si può usare tranquillamente "idioma" per mettere d'accordo tutti), l'affermazione innegabile è che la parlata locale assume nell'esperienza poetica di queste terre un ruolo che può ben dirsi, come altrove meno massicciamente accade, complementare alla lingua nazionale italiana.


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mercoledì 15 giugno 2016

IL FESTIVAL CULTURALE: CROCE E DELIZIA DA SPENDERSI MA NON SPANDERSI

IL BENE E IL MALE - Opportunità e frustrazioni del "salotto esponenziale"

Quando penso al festival culturale, letterario in particolare, ho in mente quelle manifestazioni che permettono agli autori di avere un terreno di confronto e ai lettori un gigantesco indice da cui attingere. Fortunatamente, capita anche che le due figure si confondano, e che l'autore sia lettore e il lettore autore. Questo modo di concepire la cultura, che sta ormai sbocciando ovunque, pur avendo trovato in due grandi formule i suoi precursori più illustri (Il Salone del Libro di Torino, che viaggia ormai verso le trenta edizioni, e il Festival di Mantova, che sta per compiere un ventennio), ha, come tutte le cose "in grande", grandi potenzialità e grandi rischi.

Le potenzialità credo siano sotto gli occhi di tutti: presentare il proprio libro al caffè della stazione, per quanto permetta ancora di mantenere una certa vena romantica, porta comunque ad avere un pubblico che, se va bene, raggiunge le venti persone. Senza grandi possibilità di incremento.
La libreria, anch'essa, tradizionale ed irrinunciabile, fa numeri al più di poco superiori.
Il grande festival, la grande manifestazione, invece, travasa su di sé un pubblico potenziale di migliaia di unità. Potenziale, sia chiaro, ma è capitato a chiunque, credo, in un tempo morto, di andare a seguire quel tizio sconosciuto o di approfondire qualcosa allo stand di quella piccola casa editrice mai sentita nominare.

I numeri potenziali, dicevo, sono allettanti. Ora, pur tuttavia, andrei a valutare, sempre col beneficio dell'opinabilità della mia visione (a differenza di molti altri io non ho la presunzione di avere le risposte a tutti i problemi della vita) quelli che, di tutto questo, costituiscono gli aspetti negativi.
Anzitutto, può accadere che nel marasma della entità dell'offerta, si focalizzi l'attenzione più sul mezzo che non sul contenuto. Ci siamo abituati, nel corso dei secoli, a vedere la letteratura, e la poesia in particolare, come un calderone da cui attingere, in cui si privilegiava maggiormente ora la forma, ora il contenuto. La poesia ha conosciuto grandi evoluzioni, arrivando sino ad impadronirsi dell'ordine spaziale con il calligramma, e sino ad una neocommistione con altre arti, recuperando il ruolo della musica e dell'arte visiva, anche adottando le ultime tecnologie.

Questa evoluzione ha arricchito sicuramente le potenzialità, interpretando il "mezzo" ancora come "mezzo artistico". Recentemente, tuttavia, proprio attraverso quell'inarrestabile fiorire di nuovi festival, al solo "mezzo artistico" si è affiancato il grande "mezzo di diffusione". Che, si badi, non è innovativo, è solo esponenziale.

La vera problematica del mezzo di diffusione contemporaneo è data da un eccesso di apparenza. Non so come la veda chi sta leggendo, ma personalmente mi capita di assistere allo stridere di tanti "esserini" che si specchiano in una circolarità autoreferenziale, che genera autocompiacimento. L'impressione, quando assisto a questa messa in scena, perché di questo si tratta, è che tanti sordi tendano ad urlare la propria versione dei fatti. Tutti lì, tutti stipati. Confusi e, alla fine, dimenticati.
Non lo so, personalmente, quale peso culturale potrà avere mai tutto questo quando ci si rigirerà indietro fra cinquant'anni.

UNA PRIGIONIA INVISIBILE CHE FRENA I "POTENZIALI MAESTRI" DEL SECONDO NOVECENTO

Io, personalmente, vedo la necessità di una forte cesura generazionale, ma questo è il mio parere. Come sta accadendo nel contesto politico e sociale, almeno all'apparenza, anche la cultura dovrebbe impegnarsi a dare un taglio ad un certo passato; non a tutto il passato, si badi, ma a quel passato che maggiormente stride.

Senza voler generalizzare, a volte ripenso alla necessità del "salto", del "recupero". Guardandomi indietro, vedo una grande pagina di poesia scritta nel secolo XX, che da Caproni arriva a Zanzotto, passando per Pasolini e Luzi, solo per citarne alcuni, ed una fase intermedia, che corrisponde sostanzialmente all'ultimo ventennio o trentennio del secolo scorso, in cui è impossibile identificare un "maestro". Chiedete a chi è nato negli anni Settanta, Ottanta e ormai anche Novanta di indicare un "maestro" nella generazione "di mezzo", quella nata l'indomani del secondo dopoguerra. Io (e dico sempre "io" perché odio la presunzione ed il dogmatismo intellettuale) sono disposto a chiamare "maestro" uno Zanzotto, che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene da apprezzarne anche le qualità umane e di umiltà, un Luzi, un Caproni... Ma poi? Poi vedo poetica interessante, con cui è giusto e doveroso confrontarsi, ma nessun reale punto di riferimento. Persone che si compiacciono del proprio ruolo culturale intrapreso e raggiunto grazie alla forza della politica, ne vedo tante. Persone che hanno la presunzione di conoscere perfettamente il panorama letterario perché "tanto se esiste deve passare attraverso di me" ne vedo tante. Fango e acqua putrida ne vedo tanti. Vedo anche poeti che davvero apprezzo per il loro modo di scrivere, un Cappello, per esempio, volendo restare su un terreno che conosco meglio, anche un Giacomini o un Vit, per tenersi sulla scia di Pasolini, o un Cecchinel, volendo andare sulla scia di Zanzotto. Tutti poeti validi, piacevoli, dotati di una lirica cristallina ed anche emozionante, ma per nessuno di questi riesco ad utilizzare l'etichetta di "maestro" dei predecessori. E mi dispiace, sarò io troppo esigente o prevenuto (ma quest'ultima opzione non credo proprio).
Davvero un peccato, perché i grandi che ho citato prima avevano i loro maestri nella generazione precedente: Ungaretti, Carducci, D'Annunzio...

Non voglio dire quindi che la poesia contemporanea abbia vissuto "il vuoto", perché sarebbe una considerazione disonesta e assolutamente non corrispondente alla realtà. Ma ho paura che quel che sta avvenendo oggi sia fortemente condizionato da una "cricca para-letteraria" che di culturale non ha un bel niente. E che non necessariamente è esterna alle dinamiche culturali.
La sensazione che ho è che ci sia qualcosa o qualcuno, una specie di "eminenza grigia non necessariamente personalizzabile", che negli ultimi decenni si sia preoccupata più di costruire dei muri, dei contenitori, sfruttando anche qualche nome conosciuto, per mantenere una sorta di "cupola" in cui o decidi di stare dentro, o decidi di stare fuori. E il modo migliore per cementificare questa "struttura" è esattamente creare dei grandi contenitori culturali o presunti tali. In cui, piaccia o non piaccia, alla fine sono l'economia e la politica a fare la parte dei leoni; eccolo, a mio avviso, il vero problema del "grande contenitore culturale": le cose fatte in grande non si reggono senza politica ed economia, ed una cultura che guarda alla politica e all'economia, volenti o nolenti, non è una cultura libera.
Temo che molti "potenziali maestri" del secondo Novecento, pur conosciuti, siano prigionieri di questo problema. Mi riferisco a quelli che ho citato sopra, ma potrei continuare tranquillamente l'elenco. Ci sono, ma non è abbastanza. Dietro c'è sempre dell'altro che stona.

Ribellarsi a tutto questo (non ai festival o alle manifestazioni in sé, ma a quello che rischiano talvolta di trascinarsi dietro) è un dovere morale, per quanto non possa pagare sul breve termine. E in questo mi rivolgo in particolare agli infraquarantenni: nessuno ha l'esclusiva sulla cultura, non è il caso di lasciarsi ingabbiare nel nome di un po' di effimera notorietà per cui dover sempre dire grazie ad altri...

Se il peso-forza della cultura è stato profondamente eliso nel proprio equilibrio da una forte componente politico-economica (che trova le proprie radici, forse, nel Sessantotto), e se il frutto di tutto questo è che l'autorevolezza di una generazione di poeti che dovrebbe oggi venir chiamata "generazione maestra" dalla generazione successiva, si trova invece ad esser stata minata nel proprio ruolo, a causa di quel "peso estraneo" che schiaccia, è necessario fare un cambio di passo. Quel tanto che basta per ridare centralità alla cultura "pura", e relegare la politica e l'economia ad entità marginali del fenomeno. 

Chiuderei questa mia noiosa disquisizione con una citazione di Giorgio Gaber: "La cultura per le masse è un'idiozia, la fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia" [La razza in estinzione - La mia generazione ha perso].


Non voglio che mi si taccia di peccare di elitismo, dopo questa citazione in questo contesto, ma ci tenevo a dire sinceramente che mi fa davvero paura la "demagogia culturale". 


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credito immagine: "Quel che resta", installazione di Ignazio Fresu - undo.net

domenica 12 giugno 2016

Si apre a San Giovanni di Casarsa (PN) la rassegna di arte contemporanea "Maestri a Nordest"

Ci sono piccoli appuntamenti che il tempo, in un'ottica di "ricerca artistica in aree poco battute", può consacrare ad interessante opportunità di conoscenza di nuovi sentieri culturali.

Si è aperta sabato 11 giugno a Casarsa della Delizia (PN), presso Palazzo Zuccheri (Centro Comunitario di San Giovanni), la quarta edizione della esposizione collettiva "Maestri a Nordest", curata dal maestro Giuseppe Onesti.
La manifestazione è un'ottima occasione per visionare un frammento artistico dell'Italia Nord-Orientale contemporanea. Espongono Giuseppe Onesti, Alessandro Cadamuro, Gianni Pasotti, Nello Taverna, Carolina Zanelli.

La mostra, che resterà aperta fino al 26 giugno, osserva il seguente orario:
venerdì - sabato: 20.30 - 23.00

domenica: 11.00 - 13.00; 19.00 - 23:00

credito immagine: Giuseppe Onesti, curatore della rassegna - giuseppeonesti.com

mercoledì 1 giugno 2016

Dialogo con ENRICO GALIANO - Il Prof.

Quando la mente viaggia ed inciampa nei ricordi di scuola, quando si ripensa a quelle mattine infinite che si era ancora troppo giovani per scandire a colpi di caffè, all'appello manca quasi sempre una cosa: la passione per ciò che si studia.
Ma può capitare che, in quello che agli occhi dei più può apparire come uno sperduto angolo di mondo, un insegnante "diverso" e che ha fatto del suo entusiasmo una forza net-virale, si insinui tra le righe di un Infinito di Leopardi recitato come si reciterebbe un requiem in una funzione religiosa, trasformando questa noia mortale in qualcosa di diverso, di entusiasmante, di interessante e, a volte, persino divertente...
Perché la letteratura italiana, nella sua inestimabile ricchezza, è vita dell'uomo, non noia, litania, bestemmia, costrizione. 

Chi è costui? Chi è questo personaggio che non si è limitato a guardare alle cose da una prospettiva diversa, ma che ha creato una nuova prospettiva utilizzando i mezzi che la modernità offre?
Enrico Galiano. Semplicemente. Un professore di scuole medie (pardon, scuola secondaria di primo grado...) che esercita la sua missione (non è semplicemente un lavoro) in un piccolo centro della provincia di Pordenone: Pravisdomini.

Un centro che si fa fatica a trovare anche sulle cartine geografiche, ma che ha una peculiarità: è il luogo con la più alta percentuale di studenti stranieri del pordenonese. Quella che si potrebbe definire "terra di confine", a tutti gli effetti. Un luogo che sembra fatto apposta per il nostro Enrico Galiano, in arte semplicemente "Il Prof."

1) Domanda scontata quanto quasi sempre temuta: presentati in tre parole. 
Sono indeciso fra “Un sognatore seriale” e “Che si mangia?”. Scegli tu. 

2) Ti sei trovato a fare il professore in quello che è il comune con la più alta percentuale di stranieri in provincia di Pordenone. Quanto pensi che questo fattore abbia rivestito un ruolo determinante nelle tue scelte didattiche, nei mezzi che adotti e che hanno ormai ampiamente varcato i confini di questo territorio? 
Moltissimo. Qui la situazione è a tratti disperante, è molto difficile far convivere realtà così eterogenee, figuriamoci far studiare i verbi o imparare la storia. In una scuola come la mia senza fantasia e spirito d'improvvisazione non ne esci. Difatti ci sono stati spesso colleghi che dopo un anno da qui sono scappati. 

3) Come percepisci il ruolo dell'insegnante nella società e, soprattutto, in quella del futuro? Sinceramente penso sia un falso mito quello per cui gli insegnanti abbiano perso d'importanza o di considerazione. È più che altro vero che questa importanza e considerazione dobbiamo costruircela noi, meritarcela noi, col lavoro di tutti i giorni, con la trasparenza, e anche con una bella dose di pazienza. Qui dove insegno io, sia io che i miei colleghi siamo molto stimati dalle famiglie. CI vogliono bene, molti ci considerano davvero parte se non della famiglia certo del mondo dei loro figli. Forse in città più grandi è più difficile, ma insomma: non è impossibile, ecco. 

4) Oltre ad interpretare te stesso e i tuoi studenti nei video che ormai tendono ad essere virali, suoni la chitarra accompagnato dalla tua dolce meta, scrivi... Scrivi... Ecco, qualcosa bolle in pentola, ci sono delle novità in vista? Non ti chiedo di rivelarci tutto, ma almeno facci qualche piccola concessione in anteprima... 
Scrivo da quando ero in seconda elementare e non credo smetterò mai. Ora, dopo abbi di tentativi e con una manciata di romanzi nel cassetto, sto preparando l'uscita di una romanzo per la casa editrice Garzanti. È una storia d'amore ma anche un thriller, con protagonisti due ragazzi di diciassette anni. Lo sto sistemando proprio in questi giorni e dovrebbe uscire all'inizio dell'anno prossimo. 

5) Sei ormai un fenomeno mediatico, e questo mi sembra innegabile. Ma tutta questa visibilità si è portata dietro anche qualche strascico negativo? Non lo so, critiche sterili, polemiche e quant'altro? Se vuoi parlacene. 
Quando decidi di metterti in gioco, quale che sia il gioco, è naturale, quasi spontaneo che arrivino le critiche. Lavorando (per così dire) nel web ho scoperto che in realtà, avere degli haters, persone che ti criticano per qualsiasi cosa, che ti attaccano, a volte anche con insulti pesanti (sì, è successo diverse volte), è in realtà un bel fregio, significa che sei sulla strada giusta. Poi ci sono anche le critiche non sterili, e io quelle le apprezzo tantissimo. Ho infatti notato che il mio lavoro di insegnante, da quando metto in piazza le cose che faccio, è migliorato molto. Sentendomi più controllato, più sotto gli occhi di molte persone, sono spinto a dare il meglio di me, a non sgarrare mai o a cercare di farlo il meno possibile. 

6) La delicatezza del tuo ruolo di insegnante, e in particolare di ragazzi di 11-13 anni, e il tuo successo acquisito anche grazie alla forza della rete, ti avrà certamente obbligato a confrontarti con un problema decisamente complesso, cioè il rapporto tra giovanissimi e nuove tecnologie, con tutti i rischi che questo comporta. In base alla tua esperienza, cosa ti sentiresti di consigliare a genitori ed insegnanti affinché riescano a trasmettere ai ragazzi il peso di un rischio ma anche la forza di una opportunità? 
I ragazzi che oggi hanno 12 anni vivranno in un mondo in cui la rete e il mondo social saranno ancora più presenti nelle loro vite rispetto a quanto non siano oggi: un bene, un male, non lo so. Probabilmente entrambe le cose. Quello che è davvero importante è avere gli occhi aperti, fare lo sforzo di aggiornarsi, documentarsi, perché è proprio dell'età adolescenziale il nascondersi, e attraverso i social possono succedere cose davvero spaventose senza che i genitori se ne accorgano. È importante riuscire ad avere le antenne alte, essere pronti a cogliere i segnali di pericolo.

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