IL BENE E IL MALE - Opportunità e frustrazioni del "salotto esponenziale"
Quando penso al festival culturale, letterario in
particolare, ho in mente quelle manifestazioni che permettono agli autori di
avere un terreno di confronto e ai lettori un gigantesco indice da cui
attingere. Fortunatamente, capita anche che le due figure si confondano, e che
l'autore sia lettore e il lettore autore. Questo modo di concepire la cultura,
che sta ormai sbocciando ovunque, pur avendo trovato in due grandi formule i
suoi precursori più illustri (Il Salone del Libro di Torino, che viaggia ormai
verso le trenta edizioni, e il Festival di Mantova, che sta per compiere un
ventennio), ha, come tutte le cose "in grande", grandi potenzialità e
grandi rischi.
Le potenzialità credo siano sotto gli occhi di tutti:
presentare il proprio libro al caffè della stazione, per quanto permetta ancora
di mantenere una certa vena romantica, porta comunque ad avere un pubblico che,
se va bene, raggiunge le venti persone. Senza grandi possibilità di incremento.
La libreria, anch'essa, tradizionale ed irrinunciabile, fa
numeri al più di poco superiori.
Il grande festival, la grande manifestazione, invece, travasa
su di sé un pubblico potenziale di migliaia di unità. Potenziale, sia chiaro,
ma è capitato a chiunque, credo, in un tempo morto, di andare a seguire quel
tizio sconosciuto o di approfondire qualcosa allo stand di quella piccola casa
editrice mai sentita nominare.
I numeri potenziali, dicevo, sono allettanti. Ora, pur
tuttavia, andrei a valutare, sempre col beneficio dell'opinabilità della mia
visione (a differenza di molti altri io non ho la presunzione di avere le
risposte a tutti i problemi della vita) quelli che, di tutto questo,
costituiscono gli aspetti negativi.
Anzitutto, può accadere che nel marasma della entità
dell'offerta, si focalizzi l'attenzione più sul mezzo che non sul contenuto. Ci
siamo abituati, nel corso dei secoli, a vedere la letteratura, e la poesia in
particolare, come un calderone da cui attingere, in cui si privilegiava
maggiormente ora la forma, ora il contenuto. La poesia ha conosciuto grandi
evoluzioni, arrivando sino ad impadronirsi dell'ordine spaziale con il
calligramma, e sino ad una neocommistione con altre arti, recuperando il ruolo
della musica e dell'arte visiva, anche adottando le ultime tecnologie.
Questa evoluzione ha arricchito sicuramente le potenzialità,
interpretando il "mezzo" ancora come "mezzo artistico".
Recentemente, tuttavia, proprio attraverso quell'inarrestabile fiorire di nuovi
festival, al solo "mezzo artistico" si è affiancato il grande
"mezzo di diffusione". Che, si badi, non è innovativo, è solo
esponenziale.
La vera problematica del mezzo di diffusione contemporaneo è
data da un eccesso di apparenza. Non so come la veda chi sta leggendo, ma
personalmente mi capita di assistere allo stridere di tanti
"esserini" che si specchiano in una circolarità autoreferenziale, che
genera autocompiacimento. L'impressione, quando assisto a questa messa in scena,
perché di questo si tratta, è che tanti sordi tendano ad urlare la propria
versione dei fatti. Tutti lì, tutti stipati. Confusi e, alla fine, dimenticati.
Non lo so, personalmente, quale peso culturale potrà avere
mai tutto questo quando ci si rigirerà indietro fra cinquant'anni.
UNA PRIGIONIA INVISIBILE CHE FRENA I "POTENZIALI MAESTRI" DEL SECONDO NOVECENTO
Io, personalmente, vedo la necessità di una forte cesura
generazionale, ma questo è il mio parere. Come sta accadendo nel contesto
politico e sociale, almeno all'apparenza, anche la cultura dovrebbe impegnarsi
a dare un taglio ad un certo passato; non a tutto il passato, si badi, ma a
quel passato che maggiormente stride.
Senza voler generalizzare, a volte ripenso alla necessità
del "salto", del "recupero". Guardandomi indietro, vedo una
grande pagina di poesia scritta nel secolo XX, che da Caproni arriva a
Zanzotto, passando per Pasolini e Luzi, solo per citarne alcuni, ed una fase
intermedia, che corrisponde sostanzialmente all'ultimo ventennio o trentennio
del secolo scorso, in cui è impossibile identificare un "maestro". Chiedete
a chi è nato negli anni Settanta, Ottanta e ormai anche Novanta di indicare un
"maestro" nella generazione "di mezzo", quella nata l'indomani
del secondo dopoguerra. Io (e dico sempre "io" perché odio la
presunzione ed il dogmatismo intellettuale) sono disposto a chiamare
"maestro" uno Zanzotto, che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere
abbastanza bene da apprezzarne anche le qualità umane e di umiltà, un Luzi, un
Caproni... Ma poi? Poi vedo poetica interessante, con cui è giusto e doveroso
confrontarsi, ma nessun reale punto di riferimento. Persone che si compiacciono
del proprio ruolo culturale intrapreso e raggiunto grazie alla forza della
politica, ne vedo tante. Persone che hanno la presunzione di conoscere
perfettamente il panorama letterario perché "tanto se esiste deve passare
attraverso di me" ne vedo tante. Fango e acqua putrida ne vedo tanti. Vedo
anche poeti che davvero apprezzo per il loro modo di scrivere, un Cappello, per
esempio, volendo restare su un terreno che conosco meglio, anche un Giacomini o
un Vit, per tenersi sulla scia di Pasolini, o un Cecchinel, volendo andare
sulla scia di Zanzotto. Tutti poeti validi, piacevoli, dotati di una lirica
cristallina ed anche emozionante, ma per nessuno di questi riesco ad utilizzare l'etichetta di
"maestro" dei predecessori. E mi dispiace, sarò io troppo esigente o
prevenuto (ma quest'ultima opzione non credo proprio).
Davvero un peccato, perché i grandi che ho citato prima avevano
i loro maestri nella generazione precedente: Ungaretti, Carducci, D'Annunzio...
Non voglio dire quindi che la poesia contemporanea abbia
vissuto "il vuoto", perché sarebbe una considerazione disonesta e
assolutamente non corrispondente alla realtà. Ma ho paura che quel che sta
avvenendo oggi sia fortemente condizionato da una "cricca para-letteraria"
che di culturale non ha un bel niente. E che non necessariamente è esterna alle dinamiche culturali.
La sensazione che ho è che ci sia qualcosa o qualcuno, una specie di "eminenza grigia non necessariamente personalizzabile", che
negli ultimi decenni si sia preoccupata più di costruire dei muri, dei
contenitori, sfruttando anche qualche nome conosciuto, per mantenere una sorta
di "cupola" in cui o decidi di stare dentro, o decidi di stare fuori.
E il modo migliore per cementificare questa "struttura" è esattamente
creare dei grandi contenitori culturali o presunti tali. In cui, piaccia o non
piaccia, alla fine sono l'economia e la politica a fare la parte dei leoni;
eccolo, a mio avviso, il vero problema del "grande contenitore culturale":
le cose fatte in grande non si reggono senza politica ed economia, ed una
cultura che guarda alla politica e all'economia, volenti o nolenti, non è una
cultura libera.
Temo che molti "potenziali maestri" del secondo Novecento, pur conosciuti, siano prigionieri di questo problema. Mi riferisco a quelli che ho citato sopra, ma potrei continuare tranquillamente l'elenco. Ci sono, ma non è abbastanza. Dietro c'è sempre dell'altro che stona.
Ribellarsi a tutto questo (non ai festival o alle manifestazioni in sé, ma a quello che rischiano talvolta di trascinarsi dietro) è un dovere morale, per quanto non
possa pagare sul breve termine. E in questo mi rivolgo in particolare agli
infraquarantenni: nessuno ha l'esclusiva sulla cultura, non è il caso di
lasciarsi ingabbiare nel nome di un po' di effimera notorietà per cui dover
sempre dire grazie ad altri...
Se il peso-forza della cultura è stato profondamente eliso nel proprio equilibrio da una forte componente politico-economica (che trova le proprie radici, forse, nel Sessantotto), e se il frutto di tutto questo è che l'autorevolezza di una generazione di poeti che dovrebbe oggi venir chiamata "generazione maestra" dalla generazione successiva, si trova invece ad esser stata minata nel proprio ruolo, a causa di quel "peso estraneo" che schiaccia, è necessario fare un cambio di passo. Quel tanto che basta per ridare centralità alla cultura "pura", e relegare la politica e l'economia ad entità marginali del fenomeno.
Chiuderei questa mia noiosa disquisizione con una citazione di
Giorgio Gaber: "La cultura per le masse è un'idiozia, la fila coi panini
davanti ai musei mi fa malinconia" [La razza in estinzione - La mia
generazione ha perso].
Non voglio che mi si taccia di peccare di elitismo, dopo
questa citazione in questo contesto, ma ci tenevo a dire sinceramente che mi fa
davvero paura la "demagogia culturale".
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