martedì 21 giugno 2016

Idioma a Nord-Est

L'esperienza poetica di quest'area d'Italia (ambito veneto - friulano) vede una innegabile tendenza al "bilinguismo". Molti dei poeti che hanno vissuto in queste terre si sono confrontati sia con la lingua nazionale, sia con gli idiomi locali.

Pasolini, prima di tutto, che è stato uno dei precursori della valorizzazione (e della identificazione stessa) del friulano, scrisse nella parlata casarsese e diede vita a quella che rimane la più importante iniziativa letteraria della storia del Friuli: l'Academiuta di Lenga Furlana, che tanto peso riveste tuttora nella conservazione del friulano di Casarsa. Basti pensare all'ultimo poeta ad essa direttamente legato, Ovidio Colussi, ma anche a quella lunga scia di poeti che ad essa, pur restandovi esterni, si sono comunque ispirati. E potremmo citare Giacomini, Cappello, Vit e altri che si esprimono in friulano e che di questa Academiuta sono sicuramente tributari.
Poi c'è stato il friulano "totalmente estraneo" alle dinamiche, anche indirette, di Pasolini e della sua Academiuta: ad esempio, uno su tutti, quello di Tavan, che nella parlata di Andreis ha regalato uno struggente esempio di "poesia sociale".
E, dalla Livenza al Piave, le esperienze venete, in primis quella del maestro Zanzotto, senza ombra di dubbio uno dei poeti più grandi del Novecento italiano, che ha dato impulso ad altri poeti riconosciuti a livello nazionale, tra cui Cecchinel. Oltre il Piave ecco Calzavara, altro poeta che si è fortemente confrontato con l'idioma locale e, tornando nell'area friulana, e anzi più specificamente giuliana, il maestro Biagio Marin e il suo veneto de mar nella parlata di Grado. Si può trovare persino, ma questa è più che altro una forzatura linguistico-letteraria, un tentativo di riproporre l'estinta parlata tergestina (l'antico dialetto romanzo della città di Trieste) da parte di Crico.

Quale possa essere il ruolo del dialetto nella poesia moderna, e quale sia il peso che questo assume in una certa area del Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la forza della poesia dialettale è anche quantitativa e non solo qualitativa, è un quesito a cui si possono dare risposte molteplici.

Quella, ad avviso di chi scrive, più convincente, non riguarda un'identità ma un'identificazione. L'uso delle parlate locali assume, in una terra come questa, una sorta di rivincita sociale di ciò che si è cercato più volte di cancellare. Questo è ancora più vero, probabilmente e nello specifico, per il friulano, che sottoposto ad una emarginazione "di classe" da parte degli stessi friulani (che la spinta borghese aveva portato a preferire il veneziano di terraferma), è poi rinato nelle periferie, lontano dai centri nevralgici del commercio regionale, ormai venetizzati (sorte che toccò alla stessa Udine), come, appunto, la Casarsa di Pasolini.
La valorizzazione successiva, che l'ha consacrata come "lingua", ha fatto il resto.
E poco importa se questa etichetta sia più politica che non squisitamente linguistica, oggi il friulano è lingua e basta, con tutto quel che ne consegue, a livello di conservazione e di valorizzazione. Purtroppo, non tutto è oro quel che luccica, perché il riconoscimento raggiunto ha richiesto comunque una certa "standardizzazione" ed una distinzione, conseguentemente, tra un fantomatico "friulano standard", individuato nella parlata dell'area sandanielese, sufficientemente estranea ai fenomeni di venetizzazione di pianura come alle contaminazioni germaniche e slave delle aree linguistiche contermini all'Austria ed alla Slovenia, e le varie "parlate locali", che in realtà non sono altro che l'espressione più reale del friulano, senz'altra definizione.
Qualsiasi standardizzazione che segue (o che precede) al riconoscimento di lingua è, agli occhi di chi scrive, una forzatura che andrebbe evitata. Se "lingua" significa avere un friulano di serie A (ufficiale???) e tanti friulani di serie B, meglio essere "dialetto".

Le dinamiche venete sono invece differenti, il veneto non ha conosciuto un vero e proprio riconoscimento a lingua, pur essendo stata la lingua, questa sì ufficiale, di uno dei più grandi Stati preunitari. Lingua ufficiale, certo, ma non sufficientemente standardizzata, neanche nel suo modo di scrivere (che è, a quanto pare, in fase di standardizzazione). Come dire, il veneto non è lingua perché non è stato ancora in grado di individuare il suo acmè letterario. Qualcuno lo individua nel veneziano di terraferma (per l'alto numero di parlanti), qualcuno nel padovano per il ruolo culturalmente dominante di questa città (sede, ricordiamo, della prima università del Triveneto e di una delle più antiche d'Italia), altri puristi persino nella parlata dell'isola di Burano "la più pura e meno contaminata". Una specie di San Daniele del Friuli rapportata al Veneto, con l'unica differenza che San Daniele del Friuli, oltre alla presunta purezza, è anche sede di una biblioteca storica che non ha paragoni in Friuli - ed ecco tornare la centralità culturale.

Qualunque sia la scelta, e a prescindere dalle etichette lingua-dialetto (si può usare tranquillamente "idioma" per mettere d'accordo tutti), l'affermazione innegabile è che la parlata locale assume nell'esperienza poetica di queste terre un ruolo che può ben dirsi, come altrove meno massicciamente accade, complementare alla lingua nazionale italiana.


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