mercoledì 15 giugno 2016

IL FESTIVAL CULTURALE: CROCE E DELIZIA DA SPENDERSI MA NON SPANDERSI

IL BENE E IL MALE - Opportunità e frustrazioni del "salotto esponenziale"

Quando penso al festival culturale, letterario in particolare, ho in mente quelle manifestazioni che permettono agli autori di avere un terreno di confronto e ai lettori un gigantesco indice da cui attingere. Fortunatamente, capita anche che le due figure si confondano, e che l'autore sia lettore e il lettore autore. Questo modo di concepire la cultura, che sta ormai sbocciando ovunque, pur avendo trovato in due grandi formule i suoi precursori più illustri (Il Salone del Libro di Torino, che viaggia ormai verso le trenta edizioni, e il Festival di Mantova, che sta per compiere un ventennio), ha, come tutte le cose "in grande", grandi potenzialità e grandi rischi.

Le potenzialità credo siano sotto gli occhi di tutti: presentare il proprio libro al caffè della stazione, per quanto permetta ancora di mantenere una certa vena romantica, porta comunque ad avere un pubblico che, se va bene, raggiunge le venti persone. Senza grandi possibilità di incremento.
La libreria, anch'essa, tradizionale ed irrinunciabile, fa numeri al più di poco superiori.
Il grande festival, la grande manifestazione, invece, travasa su di sé un pubblico potenziale di migliaia di unità. Potenziale, sia chiaro, ma è capitato a chiunque, credo, in un tempo morto, di andare a seguire quel tizio sconosciuto o di approfondire qualcosa allo stand di quella piccola casa editrice mai sentita nominare.

I numeri potenziali, dicevo, sono allettanti. Ora, pur tuttavia, andrei a valutare, sempre col beneficio dell'opinabilità della mia visione (a differenza di molti altri io non ho la presunzione di avere le risposte a tutti i problemi della vita) quelli che, di tutto questo, costituiscono gli aspetti negativi.
Anzitutto, può accadere che nel marasma della entità dell'offerta, si focalizzi l'attenzione più sul mezzo che non sul contenuto. Ci siamo abituati, nel corso dei secoli, a vedere la letteratura, e la poesia in particolare, come un calderone da cui attingere, in cui si privilegiava maggiormente ora la forma, ora il contenuto. La poesia ha conosciuto grandi evoluzioni, arrivando sino ad impadronirsi dell'ordine spaziale con il calligramma, e sino ad una neocommistione con altre arti, recuperando il ruolo della musica e dell'arte visiva, anche adottando le ultime tecnologie.

Questa evoluzione ha arricchito sicuramente le potenzialità, interpretando il "mezzo" ancora come "mezzo artistico". Recentemente, tuttavia, proprio attraverso quell'inarrestabile fiorire di nuovi festival, al solo "mezzo artistico" si è affiancato il grande "mezzo di diffusione". Che, si badi, non è innovativo, è solo esponenziale.

La vera problematica del mezzo di diffusione contemporaneo è data da un eccesso di apparenza. Non so come la veda chi sta leggendo, ma personalmente mi capita di assistere allo stridere di tanti "esserini" che si specchiano in una circolarità autoreferenziale, che genera autocompiacimento. L'impressione, quando assisto a questa messa in scena, perché di questo si tratta, è che tanti sordi tendano ad urlare la propria versione dei fatti. Tutti lì, tutti stipati. Confusi e, alla fine, dimenticati.
Non lo so, personalmente, quale peso culturale potrà avere mai tutto questo quando ci si rigirerà indietro fra cinquant'anni.

UNA PRIGIONIA INVISIBILE CHE FRENA I "POTENZIALI MAESTRI" DEL SECONDO NOVECENTO

Io, personalmente, vedo la necessità di una forte cesura generazionale, ma questo è il mio parere. Come sta accadendo nel contesto politico e sociale, almeno all'apparenza, anche la cultura dovrebbe impegnarsi a dare un taglio ad un certo passato; non a tutto il passato, si badi, ma a quel passato che maggiormente stride.

Senza voler generalizzare, a volte ripenso alla necessità del "salto", del "recupero". Guardandomi indietro, vedo una grande pagina di poesia scritta nel secolo XX, che da Caproni arriva a Zanzotto, passando per Pasolini e Luzi, solo per citarne alcuni, ed una fase intermedia, che corrisponde sostanzialmente all'ultimo ventennio o trentennio del secolo scorso, in cui è impossibile identificare un "maestro". Chiedete a chi è nato negli anni Settanta, Ottanta e ormai anche Novanta di indicare un "maestro" nella generazione "di mezzo", quella nata l'indomani del secondo dopoguerra. Io (e dico sempre "io" perché odio la presunzione ed il dogmatismo intellettuale) sono disposto a chiamare "maestro" uno Zanzotto, che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene da apprezzarne anche le qualità umane e di umiltà, un Luzi, un Caproni... Ma poi? Poi vedo poetica interessante, con cui è giusto e doveroso confrontarsi, ma nessun reale punto di riferimento. Persone che si compiacciono del proprio ruolo culturale intrapreso e raggiunto grazie alla forza della politica, ne vedo tante. Persone che hanno la presunzione di conoscere perfettamente il panorama letterario perché "tanto se esiste deve passare attraverso di me" ne vedo tante. Fango e acqua putrida ne vedo tanti. Vedo anche poeti che davvero apprezzo per il loro modo di scrivere, un Cappello, per esempio, volendo restare su un terreno che conosco meglio, anche un Giacomini o un Vit, per tenersi sulla scia di Pasolini, o un Cecchinel, volendo andare sulla scia di Zanzotto. Tutti poeti validi, piacevoli, dotati di una lirica cristallina ed anche emozionante, ma per nessuno di questi riesco ad utilizzare l'etichetta di "maestro" dei predecessori. E mi dispiace, sarò io troppo esigente o prevenuto (ma quest'ultima opzione non credo proprio).
Davvero un peccato, perché i grandi che ho citato prima avevano i loro maestri nella generazione precedente: Ungaretti, Carducci, D'Annunzio...

Non voglio dire quindi che la poesia contemporanea abbia vissuto "il vuoto", perché sarebbe una considerazione disonesta e assolutamente non corrispondente alla realtà. Ma ho paura che quel che sta avvenendo oggi sia fortemente condizionato da una "cricca para-letteraria" che di culturale non ha un bel niente. E che non necessariamente è esterna alle dinamiche culturali.
La sensazione che ho è che ci sia qualcosa o qualcuno, una specie di "eminenza grigia non necessariamente personalizzabile", che negli ultimi decenni si sia preoccupata più di costruire dei muri, dei contenitori, sfruttando anche qualche nome conosciuto, per mantenere una sorta di "cupola" in cui o decidi di stare dentro, o decidi di stare fuori. E il modo migliore per cementificare questa "struttura" è esattamente creare dei grandi contenitori culturali o presunti tali. In cui, piaccia o non piaccia, alla fine sono l'economia e la politica a fare la parte dei leoni; eccolo, a mio avviso, il vero problema del "grande contenitore culturale": le cose fatte in grande non si reggono senza politica ed economia, ed una cultura che guarda alla politica e all'economia, volenti o nolenti, non è una cultura libera.
Temo che molti "potenziali maestri" del secondo Novecento, pur conosciuti, siano prigionieri di questo problema. Mi riferisco a quelli che ho citato sopra, ma potrei continuare tranquillamente l'elenco. Ci sono, ma non è abbastanza. Dietro c'è sempre dell'altro che stona.

Ribellarsi a tutto questo (non ai festival o alle manifestazioni in sé, ma a quello che rischiano talvolta di trascinarsi dietro) è un dovere morale, per quanto non possa pagare sul breve termine. E in questo mi rivolgo in particolare agli infraquarantenni: nessuno ha l'esclusiva sulla cultura, non è il caso di lasciarsi ingabbiare nel nome di un po' di effimera notorietà per cui dover sempre dire grazie ad altri...

Se il peso-forza della cultura è stato profondamente eliso nel proprio equilibrio da una forte componente politico-economica (che trova le proprie radici, forse, nel Sessantotto), e se il frutto di tutto questo è che l'autorevolezza di una generazione di poeti che dovrebbe oggi venir chiamata "generazione maestra" dalla generazione successiva, si trova invece ad esser stata minata nel proprio ruolo, a causa di quel "peso estraneo" che schiaccia, è necessario fare un cambio di passo. Quel tanto che basta per ridare centralità alla cultura "pura", e relegare la politica e l'economia ad entità marginali del fenomeno. 

Chiuderei questa mia noiosa disquisizione con una citazione di Giorgio Gaber: "La cultura per le masse è un'idiozia, la fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia" [La razza in estinzione - La mia generazione ha perso].


Non voglio che mi si taccia di peccare di elitismo, dopo questa citazione in questo contesto, ma ci tenevo a dire sinceramente che mi fa davvero paura la "demagogia culturale". 


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credito immagine: "Quel che resta", installazione di Ignazio Fresu - undo.net

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