mercoledì 10 marzo 2021

MÅNESKIN: LA GRANDE OCCASIONE

 

Premetto che tutto ciò che dirò qui non riguarderà minimamente aspetti tecnico-musicali. Come diceva un mio caro amico, molto più competente di me, se non hai studiato in Conservatorio e non ti sei diplomato in Composizione, lascia perdere la tecnica. E considera anche che, tecnicamente, tutta la musica leggera mondiale verrebbe travolta da un giudizio fortemente negativo, sul piano della tecnica compositiva. Si salverebbe, forse, il Prog, ammesso che il Prog sia "musica leggera".

Questa premessa è doverosa, e mi serve per avere la certezza di distinguermi dai grandi esperti musicali che ci sono in giro, per molti dei quali la cultura musicale può ridursi, fondamentalmente, a strimpellare uno strumento e andare a vedere qualche concerto. Qui non si parla di tecnica. Non sarei in grado di dire più di quattro fesserie basilari, sulle quali sarebbe inutile tessere un discorso.

Detto ciò, sottolineo fin da subito che spezzerò una lancia in favore dei Måneskin.

E lo farò su quello che è, a mio avviso, il terreno più rilevante: non quello tecnico, abbiamo già detto, e neppure quello emotivo, che sarebbe totalmente soggettivo. Un discorso basato, nei fatti, sul "mi piace" o sul "non mi piace", è un discorso circolare. E, in quanto tale, totalmente inutile. La soggettività del giudizio, in ultima istanza, diviene sorda.

Il discorso, invece, si basa su qualcosa che finisce col trascendere i Måneskin e si inserisce in una riflessione sulla musica in generale.

Vedere un gruppo che suona Rock (e questo è oggettivo, rispetto ai canoni del Rock) e che vince il Festival di Sanremo... un universo in cui il Rock, quando presente, non aveva mai avuto alcuna reale possibilità di vittoria, non nascondo che mi faccia piacere. Come, del pari, mi fa piacere che abbiano portato sul palco una canzone dei CCCP (prescindiamo da qualsiasi giudizio sull'esecuzione, poiché anch'esso risulterebbe troppo personale). In aggiunta, anche il fatto che un altro autore in gara, Max Gazzè, abbia portato i CSI, è qualcosa di veramente positivo, secondo il parere di chi scrive.

Ad ogni modo... La vittoria dei Måneskin permette ad un genere che, agli occhi di alcuni (evidentemente, assai poco informati) risultava morto, di recuperare (ulteriore) linfa vitale. Non perché Zitti e Buoni debba risultare il meglio della produzione Rock nostrana (e non credo fosse neanche l'obiettivo di chi l'ha portata all'Ariston), ma semplicemente perché questa vittoria può potenzialmente innescare dei meccanismi di conoscenza musicale che, nell'era dei social e dei talent, sembravano (questi sì) sepolti.

Come funzionava qualche anno fa? Diciamo prima dell'esplosione di Internet, dunque prima del 2000, fondamentalmente? La scena musicale viveva di intrecci, di catene. Dal successo di una band o di un artista, poteva dipendere un'onda d'urto positiva che travolgeva tutti, o molti, degli artisti che facevano quello stesso genere, o, quantomeno, che fiorivano in quello stesso ambiente.

Facciamo un esempio concreto - attingendo dalla scena Rock nostrana, così che si capisca che cosa intendo: i Litfiba, alla fine degli anni 90 raggiungono l'apice del successo commerciale. Il loro pubblico esplode con Mondi Sommersi e Infinito (il loro album, quest'ultimo, più lontano dal Rock della loro storia). Chi si avvicina per la prima volta a quel tipo di sound, e mi riferisco, specificamente, agli adolescenti, raramente conosce la produzione precedente. L'esplosione commerciale, spinge molti ragazzi ad approfondire quel gruppo. E così vanno indietro, scoprono, per esempio, il Rock duro di Terremoto, e poi vanno ancora indietro. Ricordiamo che siamo ancora nell'epoca in cui se ti interessa un autore o un gruppo, devi comprarti il disco o sperare che qualcuno dei tuoi amici ce l'abbia, per farti fare una cassetta pirata... Fatto sta, che la conoscenza si approfondisce, e scopri i Litfiba anni 80. I Litfiba anni 80 ti aprono un intero universo, a cominciare dai Diaframma. Conosci la storia dei Litfiba e, parallelamente, seguendo le orme di chi di quel gruppo ha fatto parte, ti avventuri anche nei CSI, che alla fine degli anni 90 sono ancora attivi. Ma, quasi automaticamente, vai a ritroso anche nella loro storia, e trovi i CCCP. Continui a seguire i fili del "discorso", scopri "Stazioni Lunari". Il progetto ti piace e ti avvicini, attraverso i concerti, ad altri artisti. Alcuni già li conoscevi, altri li conosci per la prima volta.
Nel frattempo, hai ampliato i tuoi orizzonti oltre l'Italia, e hai incontrato la New Wave internazionale, il Punk, la musica Dark... Ti accorgi ogni giorno di più di quanto immensa sia la galassia musicale, e un giorno ti trovi a seguire l'ultimo concerto dei Tuxedomoon in formazione originale.

Potrei fare un altro esempio: avresti mai conosciuto la musica dei Pylon senza il successo dei R.E.M.? Statisticamente, direi di no.

Oggi siamo in un'epoca diversa, un'epoca in cui l'uso e consumo va di pari passo con un sostanziale appiattimento musicale. Non perché manchino alternative, ma perché quelle alternative sono schiacciate dai percorsi obbligati. Il talent show è diventato una quasi necessità per emergere. Non siamo più in un'epoca in cui ci si poteva permettere di inventarsi un concerto nel magazzino dello zio, invitando i propri compagni di liceo o di università, e sperare in un passaparola. Aspettando che qualcuno venisse notato, gli venisse proposto un contratto, e poi si trascinasse dietro un po' di successo e di visibilità anche per gli altri.

Paradossalmente, l'epoca in cui chiunque avrebbe una visibilità potenzialmente planetaria, è anche l'epoca in cui la visibilità fuori dai "canali ad ampia portata" si attesta sullo zero. E da lì fa molta fatica a schiodarsi.

In questa vittoria inaspettata, invece, vedo un ritorno al passato con i mezzi del presente. Poi, forse, sarò troppo ottimista, ma qualche sentore c'è. I ragazzi di oggi hanno molti più mezzi per conoscere di quanti non ne abbia avuti chi vi scrive, quando era adolescente. E qualche sentore di "cambiamento", io lo vedo nei numeri. "Amandoti" dei CCCP ha aumentato le visualizzazioni su Youtube (limitatamente al video che ho visto io, ce ne sono anche altri), di oltre 50mila. Non ho fatto questa verifica su Spotify, ma già penso che Youtube sia indicativo: poco più di 600mila visualizzazioni in quasi 11 anni, oltre 50mila nuove visualizzazioni in una manciata di giorni (mentre scrivo, sta viaggiando sulle 5mila al giorno).

Per non parlare di quello che è accaduto agli Anthony Laszlo, questo per motivi collaterali e (forse) non voluti: da poco più di 10mila visualizzazioni, oggi ne hanno raggiunte oltre 300mila...

Ci rendiamo conto dell'onda d'urto potenziale che attraverso questa band di ventenni sta travolgendo, o può travolgere, un intero genere? In un momento in cui, cerchiamo di essere seri, moltissime persone in questo Paese neanche erano a conoscenza dell'esistenza di una scena Rock - in tutte le sue declinazioni - che parla italiano?

Si mettano l'anima in pace i cosiddetti puristi: questo momento può portare alla rinascita di un genere, alla voglia per gli adolescenti di scoprirlo e, perché no, di farsi comprare una chitarra elettrica.

Non perché i Måneskin debbano essere il meglio in circolazione, questo non credo si pretenda da loro. Ma hanno la giusta visibilità, e per un certo tipo di musica, questa è una (nuova) immensa occasione.

A questi ragazzi io auguro soltanto una cosa; una cosa che, probabilmente, è l'opposto di quello che ci si aspetta in un'epoca in cui pare si nasca artisti già preconfezionati (da altri): sperimentate. Battete più strade, muovetevi con i vostri passi. Siate voi stessi, non solo a parole. Avete una opportunità che va oltre la vostra musica. Uscite dalla logica talent che vi ha forgiati, e andate oltre. Se riuscirete in questa missione, sarete un gigantesco faro per la musica italiana (e, a costo di essere impopolare rispetto a certi ambienti, credo che ne abbiate ampiamente le potenzialità). In caso contrario, rischierete di essere come tante altre meteore da talent fagocitate dal successo, e io mi sarò semplicemente sbagliato.


mercoledì 20 settembre 2017

BOTANICA dei Deproducers: tra inno alla vita e denuncia sociale

Per percepire la propria fragile natura, la propria piccolezza, non serve necessariamente guardare all'universo e alle stelle.
Anche questa nostra Terra ci offre infatti, attraverso il regno vegetale, la più grande e misconosciuta formula di vastità: nel numero, nelle dimensioni, negli anni di vita.
Ci sono alberi, come il Pinus Longaeva, che abbracciano con le loro radici il nostro pianeta da 4mila anni e oltre. Che hanno visto passare gran parte della storia dell'umanità sotto le loro chiome.
Ci sono alberi immensi, come le Sequoie Giganti, che possono arrivare a 100 metri di altezza. E, poi, ci sono piante che resistono ai climi più difficili, attraverso una evoluzione lunga milioni di anni.
Ci sono piante che hanno imparato, per sopravvivenza, a sfruttare gli animali, e persino a selezionarli.

Tutto questo è Botanica, lo spettacolo dei Deproducers (Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Massimiliano Casacci, Riccardo Sinigallia) che hanno concluso la loro tournée estiva a Pordenone, in occasione dell'edizione 2017 di Pordenonelegge.
Un viaggio attraverso capitoli poco conosciuti o totalmente sconosciuti ai più sulla vita delle piante, come le loro relazioni, tra sé o con l'ambiente esterno. Il loro muoversi, il loro "giocare", le loro competizioni e le loro sfide.
Un mondo affascinante, apparentemente senza limiti.
Ma che conosce, purtroppo, il limite distruttivo dell'uomo, ed ecco che Botanica è anche una immensa denuncia sociale: le piante sono la base della vita animale, non esiste alcuna possibilità per l'essere umano e per tutto ciò che è animale, di sopravvivere senza piante. Sembrerebbe scontato, un concetto ripetuto sino a divenire retorica, ma in un mondo in cui, in nome del profitto, si consuma ogni anno una superficie di foresta pari a quella dell'Inghilterra, ecco che non esiste nulla di scontato o di retorico.

La nostra vita è legata indissolubilmente a questo variegato mondo. Così, dove le note incontrano immagini, e le parole del professor Stefano Mancuso fungono da necessario contorno ed approfondimento, speriamo abbia inizio un reale cammino di consapevolezza individuale e sociale.


Tutti i diritti riservati
credito immagine: Allday.ru 
L'immagine appartiene al suo autore, l'artista Agim Sulaj


martedì 21 marzo 2017

Giornata Mondiale della Poesia 2017

LA VERA POESIA
Anche se il suo valore non è stato compreso,
la parola di un poeta vero
versa nelle orecchie una corrente di miele:
anche se non è ancora giunta la sua fragranza, certo
cattura lo sguardo una ghirlanda di gelsomini.

(Subandhu, poeta indiano del VII secolo)


La primavera sboccia come la poesia. Ed anche quest'anno, in occasione della giornata mondiale della poesia, centinaia di eventi, in Italia e nel mondo, renderanno omaggio ad una delle forme più pure ed antiche di espressione dell'umanità.

Sentimenti, emozioni, preoccupazioni, osservazione del circostante come dell'infinito, passione, vita quotidiana, socialità, interiorità, satira,... Un linguaggio tanto totalizzante quanto universale.

E in questo, certo, le siamo tutti tributari. 


(c) traduzione di Giuliano Boccali - credito immagine: David Wagner

domenica 12 marzo 2017

Diritto d'autore: OPERE COLLETTIVE, COMPOSTE, IN COMUNIONE

Accade spesso che gli autori decidano di collaborare: ecco che allora, dal punto di vista legale, possono sorgere due situazioni principali (frequenti nella prassi) che guardano al prodotto di tali collaborazioni: opere cosiddette "collettive" ed opere cosiddette "composte".

Le opere "collettive" sono quelle in cui ciascuna parte da cui è formata l'opera resta distinta ed autonoma rispetto alle altre. Un'antologia, ad esempio, è un'opera collettiva, perché troveremo i testi di Tizio, cui seguono i testi di Caio e quelli di Sempronio. L'opera è, in questo caso, una somma di opere, né più e né meno.
Questo, evidentemente, crea delle conseguenze: ai singoli collaboratori dell'opera collettiva è riservato, anzitutto, il diritto di utilizzare la propria opera separatamente. I diritti di utilizzazione economica sull'opera collettiva, invece, spettano all'editore, salvo non si sia pattuito diversamente. Colui che viene considerato "autore" dell'opera collettiva (cioè dell'opera nel suo insieme) è colui che dirige, che cura, che gestisce e che organizza. Ricordando, comunque, quanto detto sopra: se questi è autore dell'opera collettiva, è anche vero che ciascun autore di ogni singola parte, conserva la propria autonomia sull'utilizzo "esterno" della propria opera.

Le opere "composte" hanno una identità meno "separabile". Possono, infatti, essere suddivise in parti, ma tale suddivisione porta ad un risultato molto diverso dall'opera nel proprio complesso.
Un esempio canonico di questo tipo è dato dalle canzoni, in cui vi sono una parte letteraria ed una musicale. Evidentemente, la musica e le parole possono, in questo caso, essere divise, ma il risultato finale sarà molto diverso. Vi è, dunque, una identità organica che risulta più accentuata rispetto alle singole parti.
Come si suddividono i diritti d'autore nelle opere composte? Basti pensare, nel caso specifico delle opere musicali, al deposito presso la SIAE, che richiede la compilazione del cosiddetto "Modulo 112". Questo modulo ricalca, evidentemente, i criteri di ripartizione tra gli autori delle singole parti. Sarà così possibile indicare i nominativi degli autori con le rispettive quote di diritti (che si presumono ripartiti in parti eguali, ma che possono essere pattiziamente derogate - cioè: se Tizio è autore della musica, e Caio è autore delle parole, la ripartizione "normale" dei diritti sarà 50% e 50%, ma i due potrebbero anche mettersi d'accordo per una ripartizione al 30% e al 70%, ad esempio).

Una disciplina simile a quella prevista per le opere composte, si ha per le opere "in comunione" (meno frequenti nella prassi). Le opere in comunione sono quelle in cui il contributo di ciascun artista è indistinguibile ed inscindibile da quello degli altri. Un esempio? Un quadro dipinto a più mani.
In questo caso la ripartizione dei diritti segue le regole generali del diritto civile sulla comunione (articoli 1100 e seguenti del codice civile), quindi presunzione di eguaglianza nelle quote, salvo diverso accordo che deve essere provato per iscritto.



Ricapitolando:

OPERE COLLETTIVE
possono essere facilmente scisse, e la loro divisione non muta il profilo sostanziale dell'opera; i diritti morali appartengono ai singoli autori, ciascuno per la propria parte - mentre i diritti morali dell'opera nel complesso sono di chi l'ha diretta/organizzata/curata; i diritti patrimoniali appartengono all'editore (salvo diverso patto); ciascun autore può utilizzare la propria opera separatamente.

OPERE COMPOSTE
possono essere scisse, ma la loro divisione va a mutare l'identità sostanziale dell'opera; i diritti morali appartengono ai singoli autori, ciascuno per la propria parte; i diritti patrimoniali appartengono a ciascun autore proporzionalmente alla quota.

OPERE IN COMUNIONE
non possono essere scisse (il contributo di ciascun autore è indistinguibile); i diritti sono ripartiti sulla base delle norme generali sulla comunione (artt. 1100 ss. c.c.), salva diversa pattuizione scritta.

tutti i diritti riservati - il presente post ha valore solo generico, non può essere pertanto sostituito ad una consulenza legale con un esperto di diritto della proprietà intellettuale, che è l'unico soggetto in grado di valutare singoli casi specifici

mercoledì 1 marzo 2017

ORDINE E MUTILAZIONE di Elena Zuccaccia

Mi ritrovo tra le mani questo libretto (inteso come "piccolo nel formato"), Ordine e Mutilazione, di Elena Zuccaccia (Edizioni Pietre Vive) e subito alcuni aspetti mi colpiscono.

Anzitutto, il "pessimismo ironico" e la nostalgia con uno sguardo al futuro. Stilisticamente parlando, un connubio di cinismo ed ironia permea l'intera silloge, mentre i versi indagano atmosfere complesse, come il rapporto tra "sentimento" e "non-sentimento", dove per quest'ultimo intendo al contempo un sentimento che non c'è più, un sentimento che non c'è mai stato e un sentimento sconosciuto. Talvolta, la linea di demarcazione tra queste "essenze contermini" è assai labile.

L'aspetto introspettivo, che all'occhio di chi scrive è sempre presente in poesia - anche nella cosiddetta "poesia civile", per intenderci - è evidente, ma tale evidenza si innesta ad un circostante tendenzialmente binario; in certe fasi, sembra persino un circostante "a tre".

L'opera è squisitamente "concettuale"; va letta, per questo, tutta d'un fiato, senza che ciò ne pregiudichi, tuttavia, la scorrevolezza. Neppure i momenti di circolarità, i ritorni e i riferimenti "al prima" appesantiscono la lettura. Sembra, piuttosto, che tali momenti "fluttuino" come un ago che tesse una trama sapiente. La "fluttuazione", peraltro, è una tematica presente al punto da offrire il titolo di uno dei capitoli e della "poesia di epilogo".
Questo "fluttuare" viene enfatizzato ancor di più da un uso della punteggiatura non convenzionale: quelli che, normalmente, appaiono come "stacchi", più o meno incisivi, qui sono invece reali "sospensioni". Sospensioni nel "non esserci".

Prima di chiudere questa brevissima e personale "impressione di lettura", vorrei porre l'attenzione su quella che appare, ai miei occhi, come una delle immagini più poetiche dell'intera silloge: il parallelismo tra la parola "amore" (o, meglio, tra la pronuncia della parola "amore") e le quattro dita delle zampe posteriori di un gatto. Perché i gatti hanno questa peculiarità: l'avere nelle zampe posteriori un dito in meno rispetto alle anteriori. E associare questa insolita immagine di "mancanza" alla pronuncia di una parola o, come forse è meglio dire, alla mutezza di una parola, ad una parola mancante, è davvero un aspetto di grande forza poetica.

Arricchiscono l'opera delle illustrazioni di Pierpaolo Miccolis


tutti i diritti riservati - credito immagine: edizioni pietre vive


martedì 28 febbraio 2017

Premio Letterario Miosotìs 2017

Il bando del Premio Letterario Miosotìs, giunto alla nona edizione, è disponibile.
Trattasi di premio letterario per opera inedita, in versi o in prosa, in lingua italiana o in uno dei dialetti della nostra Penisola, dedicato alla memoria di Vittorio Russo e Giancarlo Mazzacurati.
Il premio è organizzato dalla casa editrice napoletana Edizioni D'If.

Il bando completo è disponibile cliccando qui.



credito immagine: Edizioni D'If 



venerdì 24 febbraio 2017

ARUSPICE NELLE VISCERE di Henry Ariemma

"Aruspice nelle Viscere" di Henry Ariemma (edito da Giuliano Ladolfi Editore) è uno di quei libri che si leggono volentieri, ma che, come tutti i libri di poesia, ti riempiono un vuoto restituendotene immediatamente un altro.

Ciò che è introspezione dell'autore si solleva oltre, sfidando le domande esistenziali più pure. Una tendenza al divino, forse, e in questo è "aruspice", cacciatore di realtà, di profondità, di essenza, tesa verso il futuro.

Trovo che la prefazione al libro, scritta da Giulio Greco, non richieda particolari integrazioni.

Come chi mi segue assiduamente saprà, io non sono un critico, e non mi addentrerò pertanto in ciò che altri già hanno fatto prima di me, e forse meglio di quanto potrei mai fare io.

Ma c'è un percorso, questo sì, che vorrei indagare. Questa silloge di Ariemma ha alcuni aspetti che, a mio avviso, guidano il lettore entro un filo logico, non so se voluto o meno, ma che traspare con forza:
alberi, rami, fiori, radici, corteccia. Questi concetti si reiterano in quasi tutti i componimenti, e non possono restare nell'indifferenza di una mera casualità.  

Che ruolo può avere "l'albero", con le sue varie appendici, in un'opera di questo tipo? Rileggendo alcune volte, fatico davvero a considerarlo un elemento del tutto casuale.

L'albero è ciò che più di ogni altra cosa unisce terra e cielo, saldo alle radici, ma che svetta alla chioma. L'albero è certezza di un tempo e di un luogo. Un elemento tendenzialmente rassicurante, nel suo ciclico fiorire e spogliarsi. Romanticamente, il legame tra il terreno e il divino. Un po' come gli aruspici, nella tradizione antica: un tramite.

Perché dico questo, e perché a mio avviso tutto ciò non può essere casuale?
Perché è qui il fulcro di tutto, se contestualizziamo l'opera all'oggi: che cosa ci manca? Cos'è che la nostra epoca non trova?
Non trova questa rassicurante certezza. Se le domande sono rimaste le stesse, le risposte si perdono. E come un aruspice, è ruolo del poeta restituire risposte che già il tempo ci ha consegnato, e che in un'epoca di falsi miti fatichiamo a decifrare.

Ruolo del poeta, certo, ma anche ruolo di ognuno di noi. Affinché questa fase sia solo una fase ciclica, e si possa, presto, tornare umanamente a fiorire.

La speranza è un ricominciare,/nutre di lamento il sogno di una notte/per nuovo giorno fatto di polvere/al volere del cuore./E il cammino con lo specchio/luminoso, mira lontana per il cieco/cucire cielo a suolo della terra/è domani a pretendere col fare/magie il messaggio che dice sì. ("Come la fede" - Aruspice nelle Viscere)


Chiudono l'opera alcuni haiku e alcuni aforismi. 


tutti i diritti riservati - credito immagine: editore