Difficile trovare un paese più tagliato per la critica. L’Italia,
luogo che, è risaputo, è abitato da un esercito di tuttologi, riesce meglio di
altri ad assorbirne i deliri.
Sia chiaro, il problema della critica non è criticare, e neppure esprimere un’opinione,
quanto piuttosto pontificare come dogmatica la propria opinione.
Proverò qui a comportarmi da critico, ma contro i critici o presunti tali.
Si tratta di un gioco, di una piccola palestra contro la feccia
intellettualoide italiota.
Partirei dalla critica cinematografica, uno dei campi in cui il
critichintellettualoide dà il meglio di sé. Sarà che un film dura mediamente
tra un’ora e mezza e due ore, e quindi è più facile da “assimilare” rispetto ad
un libro, che richiede impegno maggiore (e che per questo, talvolta, si evita a priori di leggere, ma non ci si risparmia comunque di criticare).
Basta farsi un giro su Internet per trovare in azione il nostro caro esercito
di critici cinematografici, esperti e, soprattutto, fautori della famosa teoria
“iosapreifaredimeglio”.
Ribadisco, il problema non è avere un’opinione ed
esprimerla, perché questo è un diritto sacrosanto. I problemi iniziano quando
la critica diviene lo sterile spunto per un’opera pantadenigratoria, in cui
tutto è male, ogni cosa fa schifo, specie se esce da un contesto diverso dall’underground,
dal sottoindipendente, dal parasvangapalle.
Ci tengo a precisare che io non sono contro i critici in toto, non sono neppure
contro i critici che esprimono un’opinione diversa dalla mia. I critici, in
fondo, sono un male necessario che, con la loro opera di natura parassitica
permettono di riempire pagine di giornali, che io personalmente sono ben lieto
di leggere, visto che non ho nulla da fare. Così facendo pubblicizzano opere di
chi è invece abituato a metterci la faccia nel lavoro, e magari riescono ad
incuriosire me e la massa come me. Nietzsche diceva che in fondo i critici sono come
gli insetti, vogliono il sangue, non il dolore. E mi pare una definizione
calzante.
Ma non posso esimermi dal provare odio nei confronti di quelli che definirei "critici dogmatici". In sostanza, coloro che sanno sempre e che non hanno dubbi mai. Semplice immondizia che naviga nella cultura perché "è bello dirlo", abituata ad evitare qualunque tipo di espressione gradevole, quale "a mio avviso", "a mio parere", "dal mio punto di vista", "secondo me", "penso che", "reputo che", "ritengo che", "in base alla mia opinione", etc.
Coloro che preferiscono il perentorio a locuzioni di questo tenore, già risultano indisponenti e ridicoli per definizione.
Poi, ovviamente, neppure questo basta a fare di un criticante un critico degno di rispetto: la professione del critico è qualcosa di
più profondo, di più complesso. Anzitutto richiede una consolidata cultura, non
semplicemente accademica, ma di vita.
Non è facile essere credibili, se poco o niente si è fatto, se non parassitismo
sulla schiena altrui. Per fare un esempio concreto, leggere delle pagine di
critica letteraria scritte da Andrea Zanzotto suonerà evidentemente più
autorevole rispetto alla lettura di una critica scritta da quel tal giornalista
che scrive per quel tal giornale e che, se non ricordo male, ha scritto un solo
libro nella sua vita, smontato dalla critica, per cui ora è interesse di quel
certo giornalista-critico vomitare il suo astio nei confronti di tutto ciò che
possa valere qualcosa.
Avrei voluto parlare di critica cinematografica, senza
volerlo sono arrivato alla critica letteraria. Ma in fondo la critica è sempre
critica, c’è quel filo che lega i detrattori di ogni arte e che ben si può
adattare a musica, cinema ed arti letterarie. Senza lasciare indietro pittura e
fotografia.
Da un occhio esterno, quando si ha a che fare con i
dispensatori di verità, si ha sempre l’impressione di trovarsi dinanzi più a
personaggi frustrati per essere rimasti relegati alla loro etichetta di
accademici snob che amano crearsi un’aura di cultura intorno al sentito dire
nei polverosi ambienti dei salotti “culturali”, che non a dei veri e propri
critici in grado di fare il loro mestiere.
In Italia, il modo migliore per essere considerati positivamente
da queste strane creature di tipo umanoide pare essere l’aver ormai trapassato
la propria esistenza, perché sotto un metro di terra improvvisamente si diviene
interessanti, forse perché innocui ed insensibili alle vagonate di merda (cosa
che trasformerebbe automaticamente la critica negativa in qualcosa di inidoneo
a giungere allo scopo primario), oppure restare nell’ombra. Perché solo nell’ombra
si vale qualcosa. Altrimenti, automaticamente, si diviene commerciali, prodotto
per masse, insomma qualcosa da disprezzare. Bello finché nessuno ti considera,
ma improvvisamente da stroncare appena qualcuno si accorge di te.
Perché? Perché l’Italia vive, più che altrove (questa scuola
esiste comunque in ogni dove) di stroncatura del tutto?
Forse perché qui non abbiamo dei grandi critici. Ne abbiamo tanti, tantissimi,
certo, ma pochi valgono qualcosa.
Non è certo un buon critico quello che pretende di lodare soltanto, per partito
preso, registi indo-pakistani trapiantati a San Benedetto del Tronto che hanno
appena prodotto un documentario sulla lunghezza del cazzo dei pinguini delle
Galapagos, che è riuscito a portare in sala due persone inclusi il regista e il
montatore.
Con questo non voglio dire che un simile documentario non possa essere
apprezzabile, magari è un capolavoro, ma non fossilizziamoci continuamente sull’invidia
per la riuscita altrui, che senza indugio pare obbligarci a smontare, a
denigrare il successo. Quella non è critica, è frustrazione.
Quale credibilità potrà avere mai il critico frustrato? Quel
tale che avrebbe voluto diventare uno scrittore di successo ma che, non
potendo, distrugge gli altri? O quel tizio che si crede un grande esperto di
musica perché lavora in un negozio di dischi e sa esprimere la sua, perentoria e
dogmatica, opinione (ma non ditegli che si tratta di un'opinione, poiché l’opinione
è per definizione opinabile e dunque subiettiva) prima ancora di ascoltarli?
Quale autorevolezza può avere un giornalista salottaro? La risposta è semplice,
nessuna.
Giochiamo un po’ con loro, applichiamo il loro stesso metodo alla
nullità delle loro esternazioni. Cominciamo a considerarli credibili,
eventualmente, solo dopo morti.
Caro critico, ma chi ti credi di essere, De Sanctis?
Croce? Non mi pare che tu sia uno di questi. Sei Fortini? No, non mi pare. E
allora, lasciatelo dire. Non vali un cazzo.
P.S. La trivialità è parte integrante ed irrinunciabile del ragionamento. Chiedo scusa al pubblico più fine, ma anche questa è ostentazione di italianità.
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