Eutòpia ("il bel luogo", in greco), l’album del ritorno e delle occasioni mancate. Così
potremmo riassumere un lavoro in cui qualsiasi giudizio deve necessariamente
prevedere una scissione tra componente musicale e testi.
Sulla componente musicale, poche cadute e molta energia. A
parte “Oltre”, uno dei pezzi peggiori dell’intero album, in cui si vedono pochi
o nessuno spiraglio (banale in tutto, con tanto di coretti che sarebbero stati
accettabili solo nel coro dei pompieri di “Altrimenti ci arrabbiamo!”), questo
album ha una potenza rilevante, grazie anche alla batteria di Martelli, uno che
picchia duro e che non si risparmia. Ghigo appare in forma. Per questo non mi
soffermerò più di tanto sugli aspetti musicali, che non si discostano da un 7
pieno (con acuti importanti su Eutòpia, un pezzo dalla struttura estremamente
interessante, con sonorità che vanno dal rock al prog… una canzone veramente da
8, senza timore di smentite).
Per quanto riguarda i testi, invece, le cadute di stile ci
sono e, purtroppo, lasciano poco spazio all’immaginazione. Cadute estremamente
evidenti sulla indecente “Gorilla Go”, dove alla musica accettabile si
accompagna una cosa (dobbiamo definirla “testo”?) che fa invidia al peggio che
la storia dei Litfiba ricordi. Per fare un paragone, peggio de “L’Esercito
delle Forchette” per “Mondi Sommersi”. Già cercarne di capire il senso era
stata un’impresa (un’assonanza con Guerrilla? Una citazione cinematografica da
poliziesco italiano anni Settanta? Una “macchietta di Piero” da consegnare in
pasto ai critici? – e in quest’ultimo caso, sottolineo, sarebbe stata geniale),
ma la spiegazione che ne ha data Piero, infine, è peggio ancora di tutto: l’ispirazione
è nata da un esperimento sociologico che si è tenuto negli USA. Al massimo puoi
dire “buona l’idea, ma realizzata in modo davvero pessimo”.
Le altre cadute sono, invece, cadute parziali. Cadute a
tratti, che ti fanno storcere il naso, e che ti spingono a concludere spesso: “questa
sarebbe stata una grande canzone, se…”. Ed è il caso di pezzi come “Intossicato”
e “In nome di Dio”, sicuramente. Pezzi ampliamente sufficienti, ma a cui manca
sempre quel qualcosa per essere “grandi pezzi”. In “Intossicato”, questo
qualcosa è il ritornello. Ne “In nome di Dio” è il testo da “grande ammucchiata”,
che rovina una canzone estremamente potente su cui si sarebbe dovuto fare
meglio, decisamente.
“Santi di Periferia” è un’altra occasione mancata. Pur
avendo una struttura musicale decisamente buona, il risultato sembra, a tratti,
una sigla di Cristina d’Avena. Ed è davvero un peccato, perché l’argomento che
vi stava alla base avrebbe un peso importante, e anche certe componenti “alla
Bennato” si sarebbero dovute sviluppare meglio, per trasformare un pezzo da
sufficienza presa con le unghie in un buon pezzo.
Fortunatamente, le note dolenti di questo album possono
dirsi esaurite qui.
Questo è un lavoro che ci regala anche tre perle, in cui,
grazie al cielo, testo e musica sono davvero ben riusciti. Si tratta di tre
pezzi che, per potenza espressiva, avrebbero potuto trovare spazio in un album
come “Spirito”, divenendone i pezzi migliori, e condividendo senza timore
questo primato con “No Frontiere” e “Animale di Zona”.
La prima di queste tre perle è “Maria Coraggio”, pezzo
dedicato a Lea Garofalo, su cui non c’è nulla da dire, se non che arriva,
arriva benissimo, ascolto dopo ascolto.
La seconda che si incontra scorrendo l’album è “Straniero”.
Un capolavoro. Qui siamo veramente ai livelli dei migliori Litfiba di sempre.
Una canzone che resterà nella storia di questa band. Esplosiva anche quando non
esplode, testo decisamente sentito e mai forzato (le forzature nei testi,
invece, sembrano la causa primaria di tante idiozie che si sentono in altre
canzoni). Qualcosa di pressoché perfetto che irrompe con un’energia che non
richiede “il finto rock che spacca”. Difficilmente avrebbero potuto fare
meglio.
E, infine, Eutòpia, su cui già ho speso alcune parole. Uno
dei pezzi più lunghi mai scritti dai Litfiba per un loro album (forse
addirittura il più lungo in assoluto). Anche qui, testo sentito (e “si sente”,
appunto) e quelle sonorità eclettiche, dal rock al prog, che la rendono un
pezzo di cui i Litfiba potranno andar fieri anche fra trent’anni.
Un’ultima nota, prima di chiudere questa mia recensione.
Questo è un album che va ascoltato e riascoltato. Certi aspetti indegni non
verranno colmati, perché è impossibile, ma degli aspetti “border line”
tenderanno a migliorare. Alla fine, ci accorgeremo di avere in mano un album da
7- , con tanti, troppi rimpianti, e alcune opere d'arte. Il livello complessivo
(nel giudizio, non nello stile) è affine a “Mondi Sommersi”, per quanto lì l’unica
vera, incolmabile caduta di stile fosse rappresentata da “L’Esercito delle
Forchette”, mentre un pezzo come “In fondo alla boccia” galleggiava nella sua
evidente ironia. Ma gli acuti di Eutòpia sono davvero acuti, talmente acuti da
risollevare gli errori e le imperfezioni di un album che, con un po’ di sforzo
in più, avrebbe potuto avvicinarsi tranquillamente all’8.
Potremmo metterlo, come giudizio complessivo, tra Spirito e
Mondi Sommersi, ma con tanta, tanta rabbia per quel gradino che i Litfiba non
hanno avuto la forza di salire. Resta il fatto, comunque, che si tratta del
miglior album dalla reunion, molto superiore a Grande Nazione. Un aspetto che
lascia ben sperare per il futuro di questa band, che sta giorno dopo giorno
ritrovando se stessa e riacquistando il suo ruolo di primo piano nella giungla della musica
italiana.
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