venerdì 18 novembre 2016

EUTOPIA, IL NUOVO ALBUM DEI LITFIBA - Recensione

Eutòpia ("il bel luogo", in greco), l’album del ritorno e delle occasioni mancate. Così potremmo riassumere un lavoro in cui qualsiasi giudizio deve necessariamente prevedere una scissione tra componente musicale e testi.

Sulla componente musicale, poche cadute e molta energia. A parte “Oltre”, uno dei pezzi peggiori dell’intero album, in cui si vedono pochi o nessuno spiraglio (banale in tutto, con tanto di coretti che sarebbero stati accettabili solo nel coro dei pompieri di “Altrimenti ci arrabbiamo!”), questo album ha una potenza rilevante, grazie anche alla batteria di Martelli, uno che picchia duro e che non si risparmia. Ghigo appare in forma. Per questo non mi soffermerò più di tanto sugli aspetti musicali, che non si discostano da un 7 pieno (con acuti importanti su Eutòpia, un pezzo dalla struttura estremamente interessante, con sonorità che vanno dal rock al prog… una canzone veramente da 8, senza timore di smentite).

Per quanto riguarda i testi, invece, le cadute di stile ci sono e, purtroppo, lasciano poco spazio all’immaginazione. Cadute estremamente evidenti sulla indecente “Gorilla Go”, dove alla musica accettabile si accompagna una cosa (dobbiamo definirla “testo”?) che fa invidia al peggio che la storia dei Litfiba ricordi. Per fare un paragone, peggio de “L’Esercito delle Forchette” per “Mondi Sommersi”. Già cercarne di capire il senso era stata un’impresa (un’assonanza con Guerrilla? Una citazione cinematografica da poliziesco italiano anni Settanta? Una “macchietta di Piero” da consegnare in pasto ai critici? – e in quest’ultimo caso, sottolineo, sarebbe stata geniale), ma la spiegazione che ne ha data Piero, infine, è peggio ancora di tutto: l’ispirazione è nata da un esperimento sociologico che si è tenuto negli USA. Al massimo puoi dire “buona l’idea, ma realizzata in modo davvero pessimo”.

Le altre cadute sono, invece, cadute parziali. Cadute a tratti, che ti fanno storcere il naso, e che ti spingono a concludere spesso: “questa sarebbe stata una grande canzone, se…”. Ed è il caso di pezzi come “Intossicato” e “In nome di Dio”, sicuramente. Pezzi ampliamente sufficienti, ma a cui manca sempre quel qualcosa per essere “grandi pezzi”. In “Intossicato”, questo qualcosa è il ritornello. Ne “In nome di Dio” è il testo da “grande ammucchiata”, che rovina una canzone estremamente potente su cui si sarebbe dovuto fare meglio, decisamente.
Santi di Periferia” è un’altra occasione mancata. Pur avendo una struttura musicale decisamente buona, il risultato sembra, a tratti, una sigla di Cristina d’Avena. Ed è davvero un peccato, perché l’argomento che vi stava alla base avrebbe un peso importante, e anche certe componenti “alla Bennato” si sarebbero dovute sviluppare meglio, per trasformare un pezzo da sufficienza presa con le unghie in un buon pezzo.

Fortunatamente, le note dolenti di questo album possono dirsi esaurite qui.
Questo è un lavoro che ci regala anche tre perle, in cui, grazie al cielo, testo e musica sono davvero ben riusciti. Si tratta di tre pezzi che, per potenza espressiva, avrebbero potuto trovare spazio in un album come “Spirito”, divenendone i pezzi migliori, e condividendo senza timore questo primato con “No Frontiere” e “Animale di Zona”.

La prima di queste tre perle è “Maria Coraggio”, pezzo dedicato a Lea Garofalo, su cui non c’è nulla da dire, se non che arriva, arriva benissimo, ascolto dopo ascolto.

La seconda che si incontra scorrendo l’album è “Straniero”. Un capolavoro. Qui siamo veramente ai livelli dei migliori Litfiba di sempre. Una canzone che resterà nella storia di questa band. Esplosiva anche quando non esplode, testo decisamente sentito e mai forzato (le forzature nei testi, invece, sembrano la causa primaria di tante idiozie che si sentono in altre canzoni). Qualcosa di pressoché perfetto che irrompe con un’energia che non richiede “il finto rock che spacca”. Difficilmente avrebbero potuto fare meglio.

E, infine, Eutòpia, su cui già ho speso alcune parole. Uno dei pezzi più lunghi mai scritti dai Litfiba per un loro album (forse addirittura il più lungo in assoluto). Anche qui, testo sentito (e “si sente”, appunto) e quelle sonorità eclettiche, dal rock al prog, che la rendono un pezzo di cui i Litfiba potranno andar fieri anche fra trent’anni.

Un’ultima nota, prima di chiudere questa mia recensione. Questo è un album che va ascoltato e riascoltato. Certi aspetti indegni non verranno colmati, perché è impossibile, ma degli aspetti “border line” tenderanno a migliorare. Alla fine, ci accorgeremo di avere in mano un album da 7- , con tanti, troppi rimpianti, e alcune opere d'arte. Il livello complessivo (nel giudizio, non nello stile) è affine a “Mondi Sommersi”, per quanto lì l’unica vera, incolmabile caduta di stile fosse rappresentata da “L’Esercito delle Forchette”, mentre un pezzo come “In fondo alla boccia” galleggiava nella sua evidente ironia. Ma gli acuti di Eutòpia sono davvero acuti, talmente acuti da risollevare gli errori e le imperfezioni di un album che, con un po’ di sforzo in più, avrebbe potuto avvicinarsi tranquillamente all’8.


Potremmo metterlo, come giudizio complessivo, tra Spirito e Mondi Sommersi, ma con tanta, tanta rabbia per quel gradino che i Litfiba non hanno avuto la forza di salire. Resta il fatto, comunque, che si tratta del miglior album dalla reunion, molto superiore a Grande Nazione. Un aspetto che lascia ben sperare per il futuro di questa band, che sta giorno dopo giorno ritrovando se stessa e riacquistando il suo ruolo di primo piano nella giungla della musica italiana. 

tutti i diritti riservati - credito immagine: copertina album Eutopia

lunedì 3 ottobre 2016

CARMINOSCOPIO Parte Prima


Per quanto questo blog non sia nato con alcun intento autoreferenziale, mi permetto, trattandosi di collaborazione tra più persone, di diffondere due parole sull'ultimo progetto che ha visto la luce in casa razionirica. 

"Carminoscopio" è un progetto di poesia elettronica nato dalla collaborazione tra Lorenzo La Monica Dorigo (autore dei testi), Valter Poles (autore delle musiche, già docente presso il conservatorio di Udine e l'Università di Trieste) e Giulio Serafini (autore della parte visuale, con un consolidato curriculum da disegnatore ed animatore).
Questo primo "segmento", Dissolvenza in vita, è un lavoro dai tratti angoscianti, che trae il proprio spunto artistico dalla società contemporanea. Nelle intenzioni, si tratta di attingere ad una "società liquida, mutevole, in un perenne dissestarsi che coinvolge l'individuo, sia in relazione intimistica che proiettata verso l'esterno".

La mancanza di valori, o la loro rapida mutazione che non ha dato il tempo di cristallizzarne di nuovi, e forse neppure di individuarne con certezza, diviene il fondamento della percezione di vuoto e di carenza di equilibrio tra un passato e un futuro. 

Le immagini, accompagnate da una musica e da una voce narrante cariche di tormento, tendono ad amplificare il significato del testo. 

Il progetto prevede già la stesura di altri "segmenti", che pur senza alcuna soluzione di continuità, vanno a costituire un unicum

Non ci sono, ovviamente, intenti sperimentali. Questo tipo di linguaggio è già stato percorso, a vario titolo, negli ultimi 30 anni. Pur tuttavia, si tratta di una sperimentazione per quanto riguarda la nostra personale esperienza. Una "prima volta" con cui speriamo di riuscire a trasmettere qualcosa. 

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domenica 2 ottobre 2016

Come deve essere la poesia del secolo XXI?

Come deve essere la poesia del secolo XXI? Una domanda stupida come poche, ma ogni tanto si sente parlare anche di questo.

Già "come DEVE" è un concetto contrario a qualsiasi logica poetica, ammesso ne esista una. Ma ciò è ancor più vero in un'epoca che può attingere da un patrimonio stilistico passato che non conosce eguali nella storia della letteratura. Quelle che un tempo erano innovazioni e sperimentazioni, ora sono consolidate. Ecco che, dunque, è la coscienza, il gusto e la formazione di ciascun poeta a dover decidere come la poesia "debba" essere.

La deriva del "semplice", che taluni propugnano come naturale evoluzione del linguaggio poetico - sulla base di una non meglio precisata capacità di "raggiungere il più alto numero di persone possibili", è in realtà una sciocca illusione. Anzitutto perché la linea tra la "semplicità" e la "banalità" è assai labile, e se è vero che una poesia semplice può divenire, in certi contesti, un valore aggiunto, è anche vero che non esiste nulla di peggio di una poesia banale, sempre che di poesia si possa in questo caso parlare. Poi, per quanto detto prima: non esiste una strada maestra, specie in un'epoca in cui le strade maestre sono già state stracciate e reinventate più volte.

Se la strada maestra da calcare, nell'epoca odierna, deve essere - come auspicano alcuni - all'insegna di una fantomatica semplicità, meglio restare a ribattere quei sentieri che si stanno coprendo di erbacce, come il Simbolismo e quella sua arte poetica criptica che contiene un segreto da svelare e che nessuno detiene, ad esempio. Meglio le difficoltà tortuose per lo scrittore e per il lettore. Meglio tante altre cose. Meglio il reale impegno civile e sociale.


Se invece, come ritiene chi scrive, e come non sembra negabile, la poesia ha raggiunto una capillarizzazione stilistica, inutile chiudere i rubinetti. Godiamoci la fortuna di poter guardare alle mille sfaccettature della poesia passata e di poter essere ciò che preferiamo. Semplici o criptici, su un piano o su cento piani. Questo lusso, in altri tempi, non sarebbe stato possibile. 


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venerdì 30 settembre 2016

Poesia e altri linguaggi (parte I)

Uno degli aspetti più interessanti della poesia è la sua indiscussa capacità di commistione con altre arti. Il linguaggio poetico, la sua manifestazione più profonda e viva, non basta a se stesso, non vive della sola freddezza della parola su carta o su altro supporto. Vive di connubio. Recitazione, come minimo, e dunque “teatro” in un senso assai lato. Canto, talvolta, come fu nell’antichità.

Musica, immagine, parola. Nel Novecento, il cinema, e nel tardo secolo l’informatica, hanno permesso di scoprire nuovi mondi, di cavalcare praterie inesplorate, talvolta sperimentazioni, talvolta modernizzazioni dell’esistente. Così è stato, su tutti, Gianni Toti, inventore della poetronica, movimento espressivo che negli anni Ottanta ha fatto sposare la poesia con le nuovissime tecnologie che andavano affacciandosi. Un italiano misconosciuto, purtroppo, che pur tuttavia è stato un reale pioniere a livello mondiale.


La duttilità della poesia è un percorso che, se ha ormai sostanzialmente esaurito forma e contenuto, non è comunque cessato nella rivisitazione del mezzo. Il mezzo è ancora un terreno da battere, come lo sono le sfumature delle altre arti, che unite alla poesia possono donare qualcosa da cui attingere: un pozzo originario, come lo era la poesia antica, che però gioca della novità dei mezzi. Del futuro.

Gianni Toti, tratto da SqueeZangeZaùm  

Fontana - Lucini - Capocitti, Tiro al Bersaglio (tratto da "Revolverate")



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martedì 5 luglio 2016

La francese italianità di Yves Bonnefoy (1923-2016)

Si è spento alcuni giorni fa, all'età di 93 anni, Yves Bonnefoy, il più grande poeta francese contemporaneo.

Appena appresa la notizia dalle agenzie avrei voluto affrettare un articolo per trovarmi anch'io "sul pezzo". Ma non faccio giornalismo e non faccio neanche critica, per cui lo "stare sul pezzo" era l'ultimo dei miei problemi. Credo peraltro, e non è una frase fatta, che un grande artista come lui si sia già costruito meritatamente l'immortalità.

Filosofo di formazione, poeta nella vita, appassionato conoscitore dell'arte. Anche meta-poeta, per molti aspetti non trascurabili. Una breve, giovanile parentesi surrealista, per poi virare verso l'esistenzialismo, per chi cerca un'etichetta nelle arti. E anche traduttore, di Keats, di Shakespeare, anzitutto, ma si cimentò anche con Petrarca, seppur in modo non sistematico.

Più volte candidato al Nobel per la letteratura, è stato anche un attento critico d'arte, letteralmente fulminato dall'arte rinascimentale italiana sin dalla giovane età.

Non è questa la sede per parlare della sua opera immensa, né chi scrive ne ha le competenze. L'unica cosa che preme sottolineare, ricorrente nella sua vita come nella sua opera, è questo continuo riferimento alla morte che pare contrastare con la potenza vitale dell'arte. Se dovessi definire Bonnefoy per quel che ne ho letto, direi semplicemente questo: un uomo che appare sospeso tra la lirica della morte e l'eternità della bellezza.

E poi, un poeta francese con una non trascurabile italianità nelle vene. Un amore sincero per tutti quei luoghi da lui conosciuti, da Firenze a Roma, da Venezia a Genova, passando per Urbino e per Ravenna. E, soprattutto, per la grande arte espressa nella loro maestosità, ma anche nel loro valore simbolico.

E anche quei riferimenti a Dante, a Leopardi, a Petrarca, a Leon Battista Alberti, al Palladio, a Piero della Francesca, solo per citarne alcuni. L'Italia assume un posto di rilievo nella vita e nell'opera di questo grande poeta.  E l'Italia ha contraccambiato questo amore, visto che Yves Bonnefoy era il più conosciuto tra i poeti francesi contemporanei. Qui in Friuli Venezia Giulia venne riconosciuto recentemente anche con l'assegnazione del Premio Nonino.

"Se voulait-il un torche/qu'il eût jetée dans la mer?/Il alla loin dans les flaques/d'entre là-bas et le ciel,/puis il se retourna vers nous,/mais le vent l'avait désécrit/bien que sa main fût crispée/ sur le mondes de la fumée (...)". Così si apre la sua lirica "Un poète". Non la riporto integralmente, ma è una delle mie preferite. E mi capitò di interrogarmi, forse in modo insensato, senza pretendere una risposta esaustiva, sui legami tra questa lirica e "Facesti come quei che va di notte...", titolo originale in italiano (tanto per sottolineare ulteriormente quel po' di italianità d'adozione - espressa in una citazione del Sommo Dante), in cui un'altra torcia appare al primo verso.
L'unica cosa certa è che le torce dei grandi poeti non si spengono, neanche quando questa vita volge al termine.


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credito immagine: Joumana Addad, 2004 (CC)


lunedì 4 luglio 2016

Dialogo con LENE sul suo nuovo album RING

Oggi abbiamo il piacere di fare due chiacchiere con Elena Ruscitto, in arte Lene, cantante e musicista milanese, reduce dall'uscita del suo nuovo album, Ring
Diplomatasi in pianoforte jazz presso l'Accademia Internazionale della Musica di Milano, ha conosciuto una carriera estremamente interessante ed anche piuttosto eclettica, esibendosi nei principali locali milanesi (e non solo), dando sfoggio di un lungo repertorio jazz, blues, soul, r 'n' b.

A queste esibizioni musicali "classiche" ha fatto eco, in modo parallelo, la passione per il pop, che più di ogni altro genere ha stimolato la sua vena compositiva. Ecco perché parliamo di artista eclettica.

Nel 2008 registra un album dal titolo "Something New", assieme al suo gruppo di allora, il trio Helen R 'n' B, che partecipa nello stesso anno al concorso Hollywood Music Lab, vincendolo.
Nel 2009 partecipa alla seconda edizione di X-Factor, in gruppo con le Sisters of Soul, trio che nasce casualmente proprio per quell'occasione. 

Dopo l'esperienza talent, che come spesso accade fatica a promuovere il talento, collabora con il clarinettista Paolo Tomelleri (con cui si esibirà suonando swing in diversi locali e teatri, tra cui il Teatro del Verme).

Fonda, in seguito, la Lene Soul Band, che si esibirà in importanti manifestazioni quali il Porretta Soul Festival.

E con questo arriviamo ai giorni nostri e al suo nuovo album, "Ring", frutto della collaborazione con Theo Querel e Raffaella Riva (quest'ultima è stata autrice, tra gli altri, di diversi pezzi di Gianna Nannini). Il disco ha delle sonorità difficilmente collocabili (pur restando nel panorama del pop): c'è chi lo definisce adult pop, chi ne ha invece sottolineato le affinità con il pop cinematico di Lana Del Rey o l'elettropop di Greg Kurstin e Sia.

I testi sono in italiano e toccano tematiche profonde, indagando l'interiorità attraverso lo specchio di una simbologia estremamente personale, che ricorre lungo tutto il disco.


Quanto senti la tua carriera recente influenzata dall'esperienza X-Factor, alla luce di questo tuo primo album? Quali erano le tue aspettative e quali, eventualmente, sono state disattese? Guardando la tua storia, sembra che altri meccanismi, la musica live, la voglia di sperimentare, abbiano giocato un ruolo più determinante rispetto al talent. In cosa senti questo album figlio della tua esperienza televisiva e in cosa invece lo senti il frutto di tutto ciò che rappresenta la tua carriera "da musicista live"?

XFactor è stata solo un’esperienza che mi ha fatto crescere e fortificato in quanto essere umano. Dico questo perché più che un’esperienza a livello musicale (di musica ce n’è poca li dentro!) è stata un modo per conoscermi meglio come persona. A livello umano infatti mi è servita tantissimo. Diciamo che sono uscita diversa rispetto a come ero prima.
Di aspettative ne avevo: il successo sicuramente, l’inizio di una lunga carriera musicale. Più che altro mi aspettavo che proprio XFactor mi avrebbe aperto la strada per costruire questa lunga carriera. Ero molto giovane...
In realtà non è stato così. Per diversi motivi:
anzitutto, chi fa un talent oggi deve avere una forte consapevolezza di sé stesso ed una sicurezza d’acciaio. Io non le avevo, o meglio, non erano ancora formate in me;
inoltre, per sfruttare a proprio vantaggio questi talent, bisogna avere un progetto in atto. Noi [Sisters of Soul, n.d.r.] non lo avevamo. Ci eravamo appena conosciute ed eravamo state “sbattute” di colpo in quel mondo nuovo.
Però ecco, tutte le illusioni adolescenziali che avevo sul mondo della musica (soprattutto italiana), XFactor me le ha completamente distrutte! Per questo mi è servito sicuramente! 
Questo album non lo sento figlio di una carriera televisiva, ma di tutto il percorso che ho fatto da quando ho iniziato a suonare fino ad ora. Nel percorso certamente c’è anche l’esperienza XFactor, ma è una briciola in mezzo a tutte le altre esperienze che ho fatto, soprattutto live, e a tutti i musicisti con cui ho avuto la fortuna di suonare e collaborare!

Come è nato quest'album? Ascoltandolo, la sonorità pop è molto presente. Questa contrasta inevitabilmente con le atmosfere più "classiche" del jazz, soul e r&b a cui siamo abituati. Si tratta di una scelta casuale, hai deciso di "voltare pagina" o ci sono altre motivazioni alla base di tutto ciò?

L’album è nato dall'incontro che ho avuto l’anno scorso con due autori, Theo Querel e Raffaella Riva. Con loro è nato un feeling compositivo pazzesco da subito, un feeling talmente forte che stiamo già scrivendo il secondo disco!
Volevamo fare un disco di musica italiana certamente, ma con sonorità più simili al pop internazionale. E così è stato. 
Il termine “ring”, titolo all'album, ha diversi significati: dal ring come luogo in cui si lotta (puoi capirne il motivo), al ring come anello, come qualcosa di circolare ma sempre in divenire.
Questo disco racchiude un percorso, una crescita. È il mio primo album, quindi ci ho messo dentro sia brani scritti anni fa, durante la mia adolescenza, sia brani molto più recenti scritti assieme a questi due autori eccezionali. 
Per quanto riguarda le sonorità, a me non piace molto etichettare la musica / parlare di generi. Ho fatto un disco scrivendo ciò che più mi piaceva, con arrangiamenti moderni (questo perché non credo abbia molto senso andare indietro!) e di mio gusto.
Non è che ho deciso di voltare pagina. Per me la musica è un tutt’uno, è una forma d’espressione libera, per quanto mi riguarda. Continuerò a cantare Billie Holiday ed Amy Winehouse come ho sempre fatto e canterò anche le canzoni che scrivo...

Quali consideri le tue "ispirazioni musicali"? La tua tendenziale ecletticità lascerebbe intendere un panorama piuttosto vasto, e non ti chiedo pertanto di farmi un lungo elenco. Ma quali cantanti e musicisti senti che ti hanno davvero cambiato la vita?

Ok. I Beatles prima di tutto. Geni assoluti. Se non ci fossero stati loro oggi probabilmente non esisterebbe quello che chiamano pop.
Amy Winehouse. Più che altro per la sua maniera di esprimersi e di interpretare, e di raccontare la sua vita travagliata.
Lana Del Rey. La sua musica è tremendamente in linea con ciò che si respira oggi nell'aria. Ciò che mi colpisce di lei, oltre al suo timbro, è la produzione dei suoi dischi. Moderna, efficace, straziante e piena.
Sia. Per la sua capacità di scrittura.
Poi ci sarebbe tutta la musica inglese, dai Genesis, ai Tears for Fears, ai Blur, Oasis, Coldplay (questa per me è la musica che ha accompagnato, in un modo o nell’altro, tutta la mia vita, dall’infanzia fino ad adesso).
In generale non mi sono mai soffermata su un “genere”, ma a ciò che più arriva alla mia sensibilità...



Lene è uno dei tanti esempi che dimostrano che nella musica, come nell'arte in generale, non esistono scorciatoie, e quei grandi baracconi costruiti che definiamo "talent show" non solo difficilmente promuovono i talenti artistici, ma tendono più a sfruttarli che non a restituire quanto gli artisti (o presunti tali) cercano di mettere in campo. Si tratta di una questione di format, di ritmi televisivi, che non sono mai compatibili con la ricerca di se stessi e della propria espressione artistica.

Lo studio, la passione, i concerti live, queste cose, invece, seppur richiedano tempi più lunghi, permettono di esprimersi secondo le proprie corde. E "Ring" è tutto questo, l'espressione di un'artista che ha costruito (e che ha trovato) se stessa. E che sicuramente continuerà su questa strada. 


"Ring"

Band composta da:
Lene (Elena Ruscitto) - Voce
e "i Porners"
Jacopo Mazza - Tastiere e Cori
Dario Jacuzzi - Basso
Paco Martucci - Chitarra
Riccardo Breda - Batteria




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martedì 28 giugno 2016

Addio a Bud Spencer

Se n'è andato a 86 anni Bud Spencer, alias Carlo Pedersoli
Spendere molte parole su di lui appare superfluo, per questo non resta che ricordarlo come quel "gigante buono" che a suon di pugni riappianava le ingiustizie, sempre schierato dalla parte dei deboli e degli oppressi, fossero contadini o minatori sfruttati, indigeni, immigrati, animali... 

In coppia (nata per un "caso fortuito") con Terence Hill (Mario Girotti), che lo ha ricordato sulla sua pagina Facebook con un "Addio amico mio", è stato un caposaldo dell'esperienza cinematografica italiana, fortemente amato dal pubblico. Ha lavorato anche con grandi registi quali Mario Monicelli.
 
Un po' della nostra infanzia è volata via con lui...

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martedì 21 giugno 2016

Idioma a Nord-Est

L'esperienza poetica di quest'area d'Italia (ambito veneto - friulano) vede una innegabile tendenza al "bilinguismo". Molti dei poeti che hanno vissuto in queste terre si sono confrontati sia con la lingua nazionale, sia con gli idiomi locali.

Pasolini, prima di tutto, che è stato uno dei precursori della valorizzazione (e della identificazione stessa) del friulano, scrisse nella parlata casarsese e diede vita a quella che rimane la più importante iniziativa letteraria della storia del Friuli: l'Academiuta di Lenga Furlana, che tanto peso riveste tuttora nella conservazione del friulano di Casarsa. Basti pensare all'ultimo poeta ad essa direttamente legato, Ovidio Colussi, ma anche a quella lunga scia di poeti che ad essa, pur restandovi esterni, si sono comunque ispirati. E potremmo citare Giacomini, Cappello, Vit e altri che si esprimono in friulano e che di questa Academiuta sono sicuramente tributari.
Poi c'è stato il friulano "totalmente estraneo" alle dinamiche, anche indirette, di Pasolini e della sua Academiuta: ad esempio, uno su tutti, quello di Tavan, che nella parlata di Andreis ha regalato uno struggente esempio di "poesia sociale".
E, dalla Livenza al Piave, le esperienze venete, in primis quella del maestro Zanzotto, senza ombra di dubbio uno dei poeti più grandi del Novecento italiano, che ha dato impulso ad altri poeti riconosciuti a livello nazionale, tra cui Cecchinel. Oltre il Piave ecco Calzavara, altro poeta che si è fortemente confrontato con l'idioma locale e, tornando nell'area friulana, e anzi più specificamente giuliana, il maestro Biagio Marin e il suo veneto de mar nella parlata di Grado. Si può trovare persino, ma questa è più che altro una forzatura linguistico-letteraria, un tentativo di riproporre l'estinta parlata tergestina (l'antico dialetto romanzo della città di Trieste) da parte di Crico.

Quale possa essere il ruolo del dialetto nella poesia moderna, e quale sia il peso che questo assume in una certa area del Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la forza della poesia dialettale è anche quantitativa e non solo qualitativa, è un quesito a cui si possono dare risposte molteplici.

Quella, ad avviso di chi scrive, più convincente, non riguarda un'identità ma un'identificazione. L'uso delle parlate locali assume, in una terra come questa, una sorta di rivincita sociale di ciò che si è cercato più volte di cancellare. Questo è ancora più vero, probabilmente e nello specifico, per il friulano, che sottoposto ad una emarginazione "di classe" da parte degli stessi friulani (che la spinta borghese aveva portato a preferire il veneziano di terraferma), è poi rinato nelle periferie, lontano dai centri nevralgici del commercio regionale, ormai venetizzati (sorte che toccò alla stessa Udine), come, appunto, la Casarsa di Pasolini.
La valorizzazione successiva, che l'ha consacrata come "lingua", ha fatto il resto.
E poco importa se questa etichetta sia più politica che non squisitamente linguistica, oggi il friulano è lingua e basta, con tutto quel che ne consegue, a livello di conservazione e di valorizzazione. Purtroppo, non tutto è oro quel che luccica, perché il riconoscimento raggiunto ha richiesto comunque una certa "standardizzazione" ed una distinzione, conseguentemente, tra un fantomatico "friulano standard", individuato nella parlata dell'area sandanielese, sufficientemente estranea ai fenomeni di venetizzazione di pianura come alle contaminazioni germaniche e slave delle aree linguistiche contermini all'Austria ed alla Slovenia, e le varie "parlate locali", che in realtà non sono altro che l'espressione più reale del friulano, senz'altra definizione.
Qualsiasi standardizzazione che segue (o che precede) al riconoscimento di lingua è, agli occhi di chi scrive, una forzatura che andrebbe evitata. Se "lingua" significa avere un friulano di serie A (ufficiale???) e tanti friulani di serie B, meglio essere "dialetto".

Le dinamiche venete sono invece differenti, il veneto non ha conosciuto un vero e proprio riconoscimento a lingua, pur essendo stata la lingua, questa sì ufficiale, di uno dei più grandi Stati preunitari. Lingua ufficiale, certo, ma non sufficientemente standardizzata, neanche nel suo modo di scrivere (che è, a quanto pare, in fase di standardizzazione). Come dire, il veneto non è lingua perché non è stato ancora in grado di individuare il suo acmè letterario. Qualcuno lo individua nel veneziano di terraferma (per l'alto numero di parlanti), qualcuno nel padovano per il ruolo culturalmente dominante di questa città (sede, ricordiamo, della prima università del Triveneto e di una delle più antiche d'Italia), altri puristi persino nella parlata dell'isola di Burano "la più pura e meno contaminata". Una specie di San Daniele del Friuli rapportata al Veneto, con l'unica differenza che San Daniele del Friuli, oltre alla presunta purezza, è anche sede di una biblioteca storica che non ha paragoni in Friuli - ed ecco tornare la centralità culturale.

Qualunque sia la scelta, e a prescindere dalle etichette lingua-dialetto (si può usare tranquillamente "idioma" per mettere d'accordo tutti), l'affermazione innegabile è che la parlata locale assume nell'esperienza poetica di queste terre un ruolo che può ben dirsi, come altrove meno massicciamente accade, complementare alla lingua nazionale italiana.


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mercoledì 15 giugno 2016

IL FESTIVAL CULTURALE: CROCE E DELIZIA DA SPENDERSI MA NON SPANDERSI

IL BENE E IL MALE - Opportunità e frustrazioni del "salotto esponenziale"

Quando penso al festival culturale, letterario in particolare, ho in mente quelle manifestazioni che permettono agli autori di avere un terreno di confronto e ai lettori un gigantesco indice da cui attingere. Fortunatamente, capita anche che le due figure si confondano, e che l'autore sia lettore e il lettore autore. Questo modo di concepire la cultura, che sta ormai sbocciando ovunque, pur avendo trovato in due grandi formule i suoi precursori più illustri (Il Salone del Libro di Torino, che viaggia ormai verso le trenta edizioni, e il Festival di Mantova, che sta per compiere un ventennio), ha, come tutte le cose "in grande", grandi potenzialità e grandi rischi.

Le potenzialità credo siano sotto gli occhi di tutti: presentare il proprio libro al caffè della stazione, per quanto permetta ancora di mantenere una certa vena romantica, porta comunque ad avere un pubblico che, se va bene, raggiunge le venti persone. Senza grandi possibilità di incremento.
La libreria, anch'essa, tradizionale ed irrinunciabile, fa numeri al più di poco superiori.
Il grande festival, la grande manifestazione, invece, travasa su di sé un pubblico potenziale di migliaia di unità. Potenziale, sia chiaro, ma è capitato a chiunque, credo, in un tempo morto, di andare a seguire quel tizio sconosciuto o di approfondire qualcosa allo stand di quella piccola casa editrice mai sentita nominare.

I numeri potenziali, dicevo, sono allettanti. Ora, pur tuttavia, andrei a valutare, sempre col beneficio dell'opinabilità della mia visione (a differenza di molti altri io non ho la presunzione di avere le risposte a tutti i problemi della vita) quelli che, di tutto questo, costituiscono gli aspetti negativi.
Anzitutto, può accadere che nel marasma della entità dell'offerta, si focalizzi l'attenzione più sul mezzo che non sul contenuto. Ci siamo abituati, nel corso dei secoli, a vedere la letteratura, e la poesia in particolare, come un calderone da cui attingere, in cui si privilegiava maggiormente ora la forma, ora il contenuto. La poesia ha conosciuto grandi evoluzioni, arrivando sino ad impadronirsi dell'ordine spaziale con il calligramma, e sino ad una neocommistione con altre arti, recuperando il ruolo della musica e dell'arte visiva, anche adottando le ultime tecnologie.

Questa evoluzione ha arricchito sicuramente le potenzialità, interpretando il "mezzo" ancora come "mezzo artistico". Recentemente, tuttavia, proprio attraverso quell'inarrestabile fiorire di nuovi festival, al solo "mezzo artistico" si è affiancato il grande "mezzo di diffusione". Che, si badi, non è innovativo, è solo esponenziale.

La vera problematica del mezzo di diffusione contemporaneo è data da un eccesso di apparenza. Non so come la veda chi sta leggendo, ma personalmente mi capita di assistere allo stridere di tanti "esserini" che si specchiano in una circolarità autoreferenziale, che genera autocompiacimento. L'impressione, quando assisto a questa messa in scena, perché di questo si tratta, è che tanti sordi tendano ad urlare la propria versione dei fatti. Tutti lì, tutti stipati. Confusi e, alla fine, dimenticati.
Non lo so, personalmente, quale peso culturale potrà avere mai tutto questo quando ci si rigirerà indietro fra cinquant'anni.

UNA PRIGIONIA INVISIBILE CHE FRENA I "POTENZIALI MAESTRI" DEL SECONDO NOVECENTO

Io, personalmente, vedo la necessità di una forte cesura generazionale, ma questo è il mio parere. Come sta accadendo nel contesto politico e sociale, almeno all'apparenza, anche la cultura dovrebbe impegnarsi a dare un taglio ad un certo passato; non a tutto il passato, si badi, ma a quel passato che maggiormente stride.

Senza voler generalizzare, a volte ripenso alla necessità del "salto", del "recupero". Guardandomi indietro, vedo una grande pagina di poesia scritta nel secolo XX, che da Caproni arriva a Zanzotto, passando per Pasolini e Luzi, solo per citarne alcuni, ed una fase intermedia, che corrisponde sostanzialmente all'ultimo ventennio o trentennio del secolo scorso, in cui è impossibile identificare un "maestro". Chiedete a chi è nato negli anni Settanta, Ottanta e ormai anche Novanta di indicare un "maestro" nella generazione "di mezzo", quella nata l'indomani del secondo dopoguerra. Io (e dico sempre "io" perché odio la presunzione ed il dogmatismo intellettuale) sono disposto a chiamare "maestro" uno Zanzotto, che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene da apprezzarne anche le qualità umane e di umiltà, un Luzi, un Caproni... Ma poi? Poi vedo poetica interessante, con cui è giusto e doveroso confrontarsi, ma nessun reale punto di riferimento. Persone che si compiacciono del proprio ruolo culturale intrapreso e raggiunto grazie alla forza della politica, ne vedo tante. Persone che hanno la presunzione di conoscere perfettamente il panorama letterario perché "tanto se esiste deve passare attraverso di me" ne vedo tante. Fango e acqua putrida ne vedo tanti. Vedo anche poeti che davvero apprezzo per il loro modo di scrivere, un Cappello, per esempio, volendo restare su un terreno che conosco meglio, anche un Giacomini o un Vit, per tenersi sulla scia di Pasolini, o un Cecchinel, volendo andare sulla scia di Zanzotto. Tutti poeti validi, piacevoli, dotati di una lirica cristallina ed anche emozionante, ma per nessuno di questi riesco ad utilizzare l'etichetta di "maestro" dei predecessori. E mi dispiace, sarò io troppo esigente o prevenuto (ma quest'ultima opzione non credo proprio).
Davvero un peccato, perché i grandi che ho citato prima avevano i loro maestri nella generazione precedente: Ungaretti, Carducci, D'Annunzio...

Non voglio dire quindi che la poesia contemporanea abbia vissuto "il vuoto", perché sarebbe una considerazione disonesta e assolutamente non corrispondente alla realtà. Ma ho paura che quel che sta avvenendo oggi sia fortemente condizionato da una "cricca para-letteraria" che di culturale non ha un bel niente. E che non necessariamente è esterna alle dinamiche culturali.
La sensazione che ho è che ci sia qualcosa o qualcuno, una specie di "eminenza grigia non necessariamente personalizzabile", che negli ultimi decenni si sia preoccupata più di costruire dei muri, dei contenitori, sfruttando anche qualche nome conosciuto, per mantenere una sorta di "cupola" in cui o decidi di stare dentro, o decidi di stare fuori. E il modo migliore per cementificare questa "struttura" è esattamente creare dei grandi contenitori culturali o presunti tali. In cui, piaccia o non piaccia, alla fine sono l'economia e la politica a fare la parte dei leoni; eccolo, a mio avviso, il vero problema del "grande contenitore culturale": le cose fatte in grande non si reggono senza politica ed economia, ed una cultura che guarda alla politica e all'economia, volenti o nolenti, non è una cultura libera.
Temo che molti "potenziali maestri" del secondo Novecento, pur conosciuti, siano prigionieri di questo problema. Mi riferisco a quelli che ho citato sopra, ma potrei continuare tranquillamente l'elenco. Ci sono, ma non è abbastanza. Dietro c'è sempre dell'altro che stona.

Ribellarsi a tutto questo (non ai festival o alle manifestazioni in sé, ma a quello che rischiano talvolta di trascinarsi dietro) è un dovere morale, per quanto non possa pagare sul breve termine. E in questo mi rivolgo in particolare agli infraquarantenni: nessuno ha l'esclusiva sulla cultura, non è il caso di lasciarsi ingabbiare nel nome di un po' di effimera notorietà per cui dover sempre dire grazie ad altri...

Se il peso-forza della cultura è stato profondamente eliso nel proprio equilibrio da una forte componente politico-economica (che trova le proprie radici, forse, nel Sessantotto), e se il frutto di tutto questo è che l'autorevolezza di una generazione di poeti che dovrebbe oggi venir chiamata "generazione maestra" dalla generazione successiva, si trova invece ad esser stata minata nel proprio ruolo, a causa di quel "peso estraneo" che schiaccia, è necessario fare un cambio di passo. Quel tanto che basta per ridare centralità alla cultura "pura", e relegare la politica e l'economia ad entità marginali del fenomeno. 

Chiuderei questa mia noiosa disquisizione con una citazione di Giorgio Gaber: "La cultura per le masse è un'idiozia, la fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia" [La razza in estinzione - La mia generazione ha perso].


Non voglio che mi si taccia di peccare di elitismo, dopo questa citazione in questo contesto, ma ci tenevo a dire sinceramente che mi fa davvero paura la "demagogia culturale". 


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credito immagine: "Quel che resta", installazione di Ignazio Fresu - undo.net

domenica 12 giugno 2016

Si apre a San Giovanni di Casarsa (PN) la rassegna di arte contemporanea "Maestri a Nordest"

Ci sono piccoli appuntamenti che il tempo, in un'ottica di "ricerca artistica in aree poco battute", può consacrare ad interessante opportunità di conoscenza di nuovi sentieri culturali.

Si è aperta sabato 11 giugno a Casarsa della Delizia (PN), presso Palazzo Zuccheri (Centro Comunitario di San Giovanni), la quarta edizione della esposizione collettiva "Maestri a Nordest", curata dal maestro Giuseppe Onesti.
La manifestazione è un'ottima occasione per visionare un frammento artistico dell'Italia Nord-Orientale contemporanea. Espongono Giuseppe Onesti, Alessandro Cadamuro, Gianni Pasotti, Nello Taverna, Carolina Zanelli.

La mostra, che resterà aperta fino al 26 giugno, osserva il seguente orario:
venerdì - sabato: 20.30 - 23.00

domenica: 11.00 - 13.00; 19.00 - 23:00

credito immagine: Giuseppe Onesti, curatore della rassegna - giuseppeonesti.com

mercoledì 1 giugno 2016

Dialogo con ENRICO GALIANO - Il Prof.

Quando la mente viaggia ed inciampa nei ricordi di scuola, quando si ripensa a quelle mattine infinite che si era ancora troppo giovani per scandire a colpi di caffè, all'appello manca quasi sempre una cosa: la passione per ciò che si studia.
Ma può capitare che, in quello che agli occhi dei più può apparire come uno sperduto angolo di mondo, un insegnante "diverso" e che ha fatto del suo entusiasmo una forza net-virale, si insinui tra le righe di un Infinito di Leopardi recitato come si reciterebbe un requiem in una funzione religiosa, trasformando questa noia mortale in qualcosa di diverso, di entusiasmante, di interessante e, a volte, persino divertente...
Perché la letteratura italiana, nella sua inestimabile ricchezza, è vita dell'uomo, non noia, litania, bestemmia, costrizione. 

Chi è costui? Chi è questo personaggio che non si è limitato a guardare alle cose da una prospettiva diversa, ma che ha creato una nuova prospettiva utilizzando i mezzi che la modernità offre?
Enrico Galiano. Semplicemente. Un professore di scuole medie (pardon, scuola secondaria di primo grado...) che esercita la sua missione (non è semplicemente un lavoro) in un piccolo centro della provincia di Pordenone: Pravisdomini.

Un centro che si fa fatica a trovare anche sulle cartine geografiche, ma che ha una peculiarità: è il luogo con la più alta percentuale di studenti stranieri del pordenonese. Quella che si potrebbe definire "terra di confine", a tutti gli effetti. Un luogo che sembra fatto apposta per il nostro Enrico Galiano, in arte semplicemente "Il Prof."

1) Domanda scontata quanto quasi sempre temuta: presentati in tre parole. 
Sono indeciso fra “Un sognatore seriale” e “Che si mangia?”. Scegli tu. 

2) Ti sei trovato a fare il professore in quello che è il comune con la più alta percentuale di stranieri in provincia di Pordenone. Quanto pensi che questo fattore abbia rivestito un ruolo determinante nelle tue scelte didattiche, nei mezzi che adotti e che hanno ormai ampiamente varcato i confini di questo territorio? 
Moltissimo. Qui la situazione è a tratti disperante, è molto difficile far convivere realtà così eterogenee, figuriamoci far studiare i verbi o imparare la storia. In una scuola come la mia senza fantasia e spirito d'improvvisazione non ne esci. Difatti ci sono stati spesso colleghi che dopo un anno da qui sono scappati. 

3) Come percepisci il ruolo dell'insegnante nella società e, soprattutto, in quella del futuro? Sinceramente penso sia un falso mito quello per cui gli insegnanti abbiano perso d'importanza o di considerazione. È più che altro vero che questa importanza e considerazione dobbiamo costruircela noi, meritarcela noi, col lavoro di tutti i giorni, con la trasparenza, e anche con una bella dose di pazienza. Qui dove insegno io, sia io che i miei colleghi siamo molto stimati dalle famiglie. CI vogliono bene, molti ci considerano davvero parte se non della famiglia certo del mondo dei loro figli. Forse in città più grandi è più difficile, ma insomma: non è impossibile, ecco. 

4) Oltre ad interpretare te stesso e i tuoi studenti nei video che ormai tendono ad essere virali, suoni la chitarra accompagnato dalla tua dolce meta, scrivi... Scrivi... Ecco, qualcosa bolle in pentola, ci sono delle novità in vista? Non ti chiedo di rivelarci tutto, ma almeno facci qualche piccola concessione in anteprima... 
Scrivo da quando ero in seconda elementare e non credo smetterò mai. Ora, dopo abbi di tentativi e con una manciata di romanzi nel cassetto, sto preparando l'uscita di una romanzo per la casa editrice Garzanti. È una storia d'amore ma anche un thriller, con protagonisti due ragazzi di diciassette anni. Lo sto sistemando proprio in questi giorni e dovrebbe uscire all'inizio dell'anno prossimo. 

5) Sei ormai un fenomeno mediatico, e questo mi sembra innegabile. Ma tutta questa visibilità si è portata dietro anche qualche strascico negativo? Non lo so, critiche sterili, polemiche e quant'altro? Se vuoi parlacene. 
Quando decidi di metterti in gioco, quale che sia il gioco, è naturale, quasi spontaneo che arrivino le critiche. Lavorando (per così dire) nel web ho scoperto che in realtà, avere degli haters, persone che ti criticano per qualsiasi cosa, che ti attaccano, a volte anche con insulti pesanti (sì, è successo diverse volte), è in realtà un bel fregio, significa che sei sulla strada giusta. Poi ci sono anche le critiche non sterili, e io quelle le apprezzo tantissimo. Ho infatti notato che il mio lavoro di insegnante, da quando metto in piazza le cose che faccio, è migliorato molto. Sentendomi più controllato, più sotto gli occhi di molte persone, sono spinto a dare il meglio di me, a non sgarrare mai o a cercare di farlo il meno possibile. 

6) La delicatezza del tuo ruolo di insegnante, e in particolare di ragazzi di 11-13 anni, e il tuo successo acquisito anche grazie alla forza della rete, ti avrà certamente obbligato a confrontarti con un problema decisamente complesso, cioè il rapporto tra giovanissimi e nuove tecnologie, con tutti i rischi che questo comporta. In base alla tua esperienza, cosa ti sentiresti di consigliare a genitori ed insegnanti affinché riescano a trasmettere ai ragazzi il peso di un rischio ma anche la forza di una opportunità? 
I ragazzi che oggi hanno 12 anni vivranno in un mondo in cui la rete e il mondo social saranno ancora più presenti nelle loro vite rispetto a quanto non siano oggi: un bene, un male, non lo so. Probabilmente entrambe le cose. Quello che è davvero importante è avere gli occhi aperti, fare lo sforzo di aggiornarsi, documentarsi, perché è proprio dell'età adolescenziale il nascondersi, e attraverso i social possono succedere cose davvero spaventose senza che i genitori se ne accorgano. È importante riuscire ad avere le antenne alte, essere pronti a cogliere i segnali di pericolo.

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domenica 29 maggio 2016

Il Castello di Sammezzano, gioiello in declino

Essere il Paese con il maggior patrimonio artistico a livello mondiale richiede coscienza, prima, e responsabilità, poi.
Non può esistere responsabilità senza coscienza, e purtroppo accade spesso che, nell'immensità di ciò che ci circonda, manchino entrambe le cose. Il nostro patrimonio è intriso di criticità, in lungo e in largo attraverso la penisola. Beni abbandonati a loro stessi, lasciati in balia del tempo e di chissà quante altre cose. E così gli Scavi di Pompei, così la Reggia di Caserta, così la Zisa di Palermo, così il Castello di Miramare a Trieste, e potremmo andare avanti per ore. Un gigantesco patrimonio, invidiato da tutto il mondo, spedito all'indirizzo dell'oblio colpevole da parte di chi di dovere.
Su alcuni dei casi eclatanti citati sopra, qualcosa si è mosso e si sta muovendo, fortunatamente.
Ma, come detto, la lista è lunga. E oggi, da questa lista, attingeremo parlando del Castello di Sammezzano. Un meraviglioso esempio ottocentesco di architettura moresca, sito nel cuore della Toscana, in comune di Reggello, ad una trentina di chilometri da Firenze.
Un luogo sfortunatamente ancora poco conosciuto, ma che può sfoggiare una rara bellezza, un trionfo cromatico negli interni che lascia a bocca aperta. Il tutto immerso nel parco con il maggior numero di sequoie in Europa. Un gioiello, una chicca, una vera ode al colore e all'eclettismo.
Anche il Castello di Sammezzano, inutile dirlo, rientra tra quelle molteplici opere d'arte che l'abbandono rischia di condurre verso un inaccettabile declino.
La coscienza è condizione necessaria alla responsabilità, dicevamo. Ecco perché è necessario prendere coscienza di questo gioiello, e recuperare il senso di responsabilità verso i tesori che la nostra patria custodisce, e che tendono a sfuggirci non oltre uno sguardo "abitudinario".
Ci vorrebbero diverse decine di milioni di euro per salvare il Castello di Sammezzano. Si parla di venti milioni solo per acquistarlo, ammesso ve ne sia la possibilità (l'ultima asta è stata, ed è notizia di soli pochi giorni fa, sospesa). Tanti, pochi, dipende dai punti di vista. Tanti sicuramente per la stragrande maggioranza della popolazione considerata come singoli, ma decisamente non tanti, se si pensa in termini di somma di individui. Basterebbe che il 3 per cento della popolazione italiana rinunciasse ai soldi di una pizza e di una bibita (10 euro) e l'obiettivo verrebbe praticamente raggiunto. Se pensiamo che siamo oltre 60milioni, basterebbe rinunciare ad un caffè, e ci sarebbero i soldi per tre Castelli di Sammezzano. 

L'Italia ha delle responsabilità verso se stessa e verso il mondo. Non dimentichiamolo. Salviamo il Castello di Sammezzano e tutti gli altri tesori sparsi per il Paese. 

Per qualsiasi ulteriore informazioneSito Save Sammezzano

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venerdì 6 maggio 2016

Quarant'anni fa il terremoto del Friuli

Erano le 21,00 del 6 maggio 1976 quando la terra in Friuli tremò, portando morte e distruzione. Fu una delle più gravi calamità del XX secolo in Italia.

Per omaggiare le vittime, e anche un popolo coraggioso che più di ogni altro ha saputo reagire alla tragedia, seguiamo le orme di uno dei più grandi registi italiani, Pupi Avati.

Durante la scossa di quel 6 maggio, il regista era intento nelle riprese del film "La casa dalle finestre che ridono". Nonostante vi fossero circa 250 km a separare l'epicentro dal luogo delle riprese (alta pianura emiliana) il movimento della macchina da presa fu ottimamente percepibile.

Il regista, successivamente, decise di non tagliare del tutto la scena in fase di montaggio, ma lasciò alcuni istanti in cui è evidente il tremore.

Così, Pupi Avati ha testimoniato ed eternizzato in un famoso capitolo del nostro cinema l'avvio di quegli attimi terribili, per il Friuli e per l'Italia intera.

Quasi mille persone perirono, gran parte dell'alto e del medio Friuli furono devastate. La pedemontana friulana, in particolare, pagò il prezzo di vite più alto.

Eppure, da quella immane tragedia, il Friuli ha saputo rinascere, rimanendo purtroppo un esempio unico nella storia d'Italia. In soli dieci anni la ricostruzione poté dirsi completata.



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venerdì 29 aprile 2016

Tornano gli Overunit Machine con il nuovo album Aldaraja

Una delle cose più difficili è recensire un gruppo musicale di cui si conosce bene la musica e la storia. Non sono parole a caso, le mie; il rischio concreto è quello di sovrapporre il gruppo per ciò che è, con l'idea che ci si è costruiti di esso, nel corso degli anni.

Aldaraja è uno di quegli album che non lasciano indifferenti. Il mio primo ostacolo, lo dico seriamente, è stato proprio ascoltare qualcosa di profondamente diverso dagli Overunit Machine come li ricordavo. Al primo ascolto ho fatto un sobbalzo dalla sedia, e mi sono chiesto "Cos'è sta roba?". Le sonorità Tool sono praticamente sparite, c'è bisogno urgente di un cambio di orecchio, oltre che di mentalità.

E il secondo ascolto è già diverso. Mi rendo conto che l'album è profondamente orecchiabile, tanto che le canzoni erano già rimaste dentro al primo ascolto. E tutto ciò nonostante alcuni passaggi decisamente sofisticati, sotto il profilo tecnico.

Si sente prepotentemente l'esperienza di Logan Mader in fase di post-produzione. Si percepisce nitidamente che gli Overunit Machine sono pronti per un nuovo ciclo, nuove prospettive e nuove sonorità.
Se è vero che "(this) circle will never close", citando l'eponimo Aldaraja, tutto appare quest'album, meno che un "peccato di circolarità". Questo gruppo non riesce ad essere uguale a se stesso. Per alcuni potrebbe essere un male, per altri un bene. Io credo che il rinnovamento, superato l'impatto iniziale, sia sempre un buon modo per incontrare nuovi orizzonti e sperimentare nuove formule.
Non mi va di paragonare gli album precedenti a questo, dire che cosa sia o fosse meglio. Quello è lavoro da "critici blasonati". Posso dire soltanto che le sonorità del prima erano molto in linea con le mie corde, qui non è bastato un ascolto immediato.
Ma, come dicono gli Overunit in "Evolve and Rise", "destroy yourself, evolve and rise again": penso che basti questo verso per riassumere la storia di questo gruppo e di questo album, e qualsiasi altra parola rischierebbe di risultare superflua.

Solo una mia ultima piccola annotazione: spettacolare l'intro neogregoriana in "Fade Away", in latino per una volta e non in inglese.

Chiusa la parentesi disco in senso stretto, che vi consiglio di procurarvi perché merita, due parole sui singoli estrapolati dall'album ("Unholy Messiah" e "Second Chance"), che costituiscono oggi due videoclip. In particolare, su "Unholy Messiah", che vede la partecipazione straordinaria di uno degli artisti più controversi dell'Italia contemporanea: Saturno Buttò, nelle vesti di un attore, per una volta, e non intento a rappresentare la realtà.


Date un'occhiata a questi videoclip, assaggerete così i nuovi Overunit Machine e, sono certo, vi preparerete ad apprezzarli nella loro essenza... 


Note:
Album prodotto da DysFunction Productions
Preproduzione e arrangiamenti di Giuseppe Bassi e Eddy Cavazza
Postproduzione di Logan Mader 





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martedì 12 aprile 2016

Pasolini e Zigaina in mostra al Revoltella di Trieste

"Le due lagune. I disegni di Pier Paolo Pasolini e le incisioni di Giuseppe Zigaina". Sarà questo il titolo della mostra, curata da Francesca Agostinelli, che si aprirà al Civico Museo di Arte Moderna "Revoltella", a Trieste.

Lo sfondo di questa esposizione è la laguna di Grado. Proprio la laguna gradese funge da punto di incontro e, al contempo, da filo conduttore tra l'arte del maestro Zigaina, da poco scomparso e figlio delle terre del basso Friuli prossime alla laguna di Grado, e l'arte dell'intellettuale casarsese Pasolini.
La raccolta, piccola ma estremamente interessante, si basa su materiale proveniente da collezioni private. E fonde, per l'appunto, la visione pasoliniana di quei luoghi in bilico tra terra e mare con cui il regista si confrontò durante le riprese del film "Medea", e di cui ci ha lasciato varie testimonianze artistiche, con la visione del maestro (e amico) Zigaina.

Fotografie, disegni, incisioni. Tra le opere inedite di Pasolini esposte in questa mostra, spiccano un ritratto di Maria Callas, colta di profilo, e un "Paletti sulla Laguna", un'opera in tecnica mista su carta decisamente emblematica, poiché pare cogliere due orizzonti, quello aperto della laguna, e quello prossimo e chiuso, del semplice elemento umano. Qualcuno potrebbe cogliere persino, anche se ovviamente basandosi sul senno del poi, un profetico riferimento al luogo della morte dell'artista.


La mostra resterà aperta dal 16 aprile all'8 maggio, e costituisce, oltre ad un interessante parallelo artistico-geografico tra Pasolini e Zigaina, anche un'ottima occasione per conoscere meglio la figura del Pasolini pittore, forse la meno nota tra le personalità dell'eclettico artista. 

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sabato 26 marzo 2016

Giorgio Caproni - L'inquietudine in versi. Il nuovo libro di Alessandro Baldacci

Uscirà il 31 marzo il nuovo libro di Alessandro Baldacci, un percorso che rievoca la vita di uno dei più grandi poeti del Novecento, secondo molti vero e proprio punto di incontro tra la prima e la seconda metà del XX secolo: Giorgio Caproni
In questo lavoro, l'autore spazierà dagli esordi di Caproni, sotto il segno della sintesi inquieta fra tradizione e modernità, fino alla maniera "estrema" della sua stagione tarda. Al centro della riflessione di quest'opera, il ruolo decisivo che la Resistenza ha avuto nella vita del poeta, trasmessa poi, inevitabilmente, nei suoi versi.
Per Caproni la frattura tra poeta e società è un "divorzio malefico" contro cui reagire, e la lingua di cui tesse i versi è "concreta e terrestre".

La figura di Caproni è centrale nel panorama letterario odierno, la sua "missione poetica" deve necessariamente trovare concreta attuazione nella lettura. E Baldacci, docente di Italianistica presso l'Università di Varsavia, fa proprio questo: ci guida nella lettura di uno dei più geniali poeti italiani del Novecento, che, nonostante l'arte poetica tendesse già a venir marginalizzata nel contesto culturale a lui coevo, egli continuava ad investire in essa come strumento di verità ed etica.  

Il testo di Alessandro Baldacci è edito da Franco Cesati Editore.


Lo stesso autore ha già pubblicato Amelia Rosselli (Laterza 2007), Andrea Zanzotto. La passione della poesia (Liguori, 2010), Controparole. Appunti per un’etica della letteratura (Atelier, 2010) Le vertigini dell’io. Ipotesi su Beckett, Bachmann e Manganelli (Ipermedium, 2011), La necessità del tragico(Transeuropa, 2014). È stato fra i curatori dell’antologia Parola plurale. Sessantaquattro poeti fra due secoli (Sossella, 2005).


credito immagine: Franco Cesati Editore

venerdì 25 marzo 2016

I novantasette anni di Lawrence Ferlinghetti, poeta della beat generation

Novantasette anni fa (24 marzo 1919) nasceva a New York "un certo" Lawrence Ferlinghetti. Uno dei maggiori poeti americani del secondo Novecento, consacrato all'arte poetica attraverso la sua opera più conosciuta, "A Coney  Island of the Mind", pubblicata per la prima volta nel 1958.

La sua poesia è "spiccia", creativa, anarchica, ironica. Non mancano i neologismi, i giochi di parole. Può considerarsi uno dei maggiori esponenti della beat generation. Il suo approccio è assolutamente non accademico, pur essendo la sua formazione letteraria plasmata proprio in ambiente accademico (tanto per rendere l'idea, ha conseguito un dottorato in Poesia alla Sorbona di Parigi, dopo essersi laureato in giornalismo nell'Università della Carolina del Nord).

Divenuto un punto di riferimento della comunità controculturale di San Francisco negli anni Cinquanta, il suo contributo alla poesia non si limita alla sola scrittura, ma si concreta anche nell'edizione. Ferlinghetti è, infatti, anche un editore: la sua casa editrice, "City Lights", proporrà un'intera collana dedicata alla poesia.

Ma non basta: la storia di Ferlinghetti non si lega indissolubilmente alla sola poesia, "scritta o scoperta": è un vero e proprio intellettuale a tutto tondo. Si affaccia alla narrativa, che trova la sua prima pagina nel romanzo "Her", uscito nel 1960; si dà in prestito alla sceneggiatura di teatro sperimentale, sempre nel corso degli anni Sessanta. Contribuisce alla traduzione di Pasolini dall'italiano all'inglese.  E, oltre a tutto ciò, si reinventa pittore.

Ecologista, pacifista, anarchico. Poliedrico. Immancabile per chi voglia conoscere un intellettuale americano che abbraccia anche l'Europa, soprattutto la Francia e l'Italia.
Meno conosciuto rispetto a Bukowski dal grande pubblico italiano, ma assolutamente senza una reale ragione. Se vi dicessi che Ferlinghetti ha pubblicato Bukowski? Se vi dicessi che parte del suo stile può ricordarlo?
Ma definire Ferlinghetti un Bukowski un pelo più raffinato sarebbe estremamente riduttivo. Il paragone serve solo a consigliarvi di schiodarvi dalla sedia e andare in libreria. O se proprio non avete voglia di uscire, entrate in una libreria online e date un'occhiata a che cosa offre digitando "Lawrence Ferlinghetti". Se davvero non sapete da dove iniziare, partite dalla già citata opera "A Coney Island of the Mind" (edita in italiano dalla casa editrice Minimum Fax).
Avrete così un quadro completo della prima produzione dell'autore.


Mentre il mondo intero augura buon compleanno a questo artista, io vi propongo, prima di andarvi a procurare e leggere qualche sua opera, di spendere qualche minuto per ascoltarlo parlare della sua città, San Francisco. 



tutti i diritti riservati - credito immagine: voxtheory from Las Vegas (Wikipedia)

domenica 20 marzo 2016

Gianni Maroccolo e Vdb23 - La data di Vittorio Veneto

Ci addentriamo nell'intima cornice dello Spazio MAVV di Vittorio Veneto, un ambiente ricavato da una vecchia filanda. Il passato che incontra il presente, un po' come quanto stavamo per ascoltare. Nulla è andato perso.

Il concerto non inizia sotto i migliori auspici, problemi tecnici alle tastiere del marchese Aiazzi costringono Maroccolo a fermare tutto, dopo i primi dieci minuti scarsi di "Rinascere", e a ricominciare da capo. Problema risolto e il concerto può finalmente avere inizio. Senza più interruzioni, per due ore filate.

"Rinascere", appunto, funge da overture. Un turbine di emozioni si scaglia sul pubblico. L'ottima prestazione vocale di Chimenti fa il resto. Nel corso della serata c'è spazio per grandi atmosfere musicali, grandi classici del passato, omaggi e un viaggio difficile da dimenticare. C'è "Aria di Rivoluzione" di Franco Battiato. Ci sono "Peste" e "Versante Est" dei Litfiba, per non dimenticare un pezzo dal coinvolgimento quasi devastante (in accezione positiva, naturalmente): "La Battaglia", direttamente dall'Eneide di Krypton. C'è "Annarella", uno dei pezzi più belli e conosciuti dei CCCP.
C'è "Les Dernierès Sept Minutes de mon Pere", un pezzo commovente, in cui Gianni ricorda suo padre in un giorno speciale come il 19 marzo. E c'è spazio per la voce del compianto Claudio Rocchi, una vera colonna portante di questo tour, che Maroccolo non si stanca di ringraziare per il grande lavoro che hanno fatto insieme.
C'è anche posto per un omaggio a Keith Emerson, da poco scomparso, e a cui viene dedicata l'esecuzione di "Lucky Man", in una versione struggente e corale con tanto di assolo al moog, ricostruito da Aiazzi con quella fedeltà e rispetto per la versione originale che solo i grandi musicisti sono in grado di eseguire.
E c'è "Maria Walewska", un piccolo capolavoro misconosciuto dei Litfiba che chiude questo viaggio. Quelli che ho elencato qui, peraltro, sono solo alcuni dei pezzi andati in scena. Non ho interesse a riportare fedelmente la scaletta, né a riproporne l'ordine preciso. Anche perché non si ripropone mai identica, nel corso del tour. L'unica cosa che mi preme davvero segnalare è la forza emozionale che si è sprigionata dalle note di una serata che non ho timore di definire perfetta. Perfetta persino nell'apparente imperfezione dei disguidi tecnici di avvio concerto. Abbiamo avuto un "quasi bis" fuori programma. Non credo ci si possa lamentare.

Una perfezione che è corale, ma il primo merito va a chi ha voluto portare in scena questo viaggio e questo incontro: Gianni Maroccolo, un bassista sopraffino che sa sfoderare un groove a tratti potente e devastante, ma sa anche lasciare muto il suo basso quando la voce deve dire cose troppo importanti per essere sopraffatta da altri suoni. Il suo basso, "Attilio", come lo ha chiamato lui, fedele compagno di viaggio dal 1983, pare quasi pulsare di vita propria: sa diventare strumento lirico ed espressivo e canta anche lui, sul palco, impreziosito da vibrati e da delay che tolgono il fiato.
In alcuni passaggi è proprio il basso, da solo, a contrappuntare la voce con un riff che non si può non definire delicato, elegante ed espressivo. E le dita che gli danno vita sono quelle di Maroccolo. Una garanzia.

Ma non c'è soltanto lui, dicevamo. C'è Andrea Chimenti, che sfodera un'ottima prestazione vocale e accompagna alcuni pezzi alla chitarra. C'è Antonio Aiazzi, di cui già si segnalava la sublime esecuzione in "Lucky Man", ma che ha dato molto in tutto il concerto, sia alle tastiere che alla fisarmonica (e proprio la fisarmonica è lo strumento clou in Maria Walewska). C'è tanta elettronica, con un sintetizzatore modular, molti effetti e molto delay (nell'apprezzare gli aspetti tecnici di tutto questo ringrazio in particolare l'amico Valter Poles, che era tra il pubblico e che mi ha fornito delle interpretazioni di quanto stava avvenendo sul palco che sfuggivano alle mie competenze). Ma accanto all'elettronica, anche l'opposto, quando il suono magico ed orientaleggiante di un sitar (tra le mani di Beppe Brotto) risveglia nuovi sensi, fino a diventare "altro", mentre l'uso dell'archetto gli conferisce sonorità quasi da theremin, fino a trasformarsi nel verso dei gabbiani di quel mare che Gianni tanto ama e a cui tanto deve nella sua ispirazione e formazione.  Non manca neppure la batteria di Simone Filippi, che, specie ne "La Battaglia", fa tremare cuori e pareti.


Non credo ci sia altro da aggiungere, se non ribadire che è stato tutto semplicemente meraviglioso. Consiglio a tutti di prendere posto ai prossimi concerti o, meglio, ai "prossimi viaggi", perché c'è tanta di quella carne al fuoco che non saprei neanche come raccontarvela, a parole. Ci ho provato, ecco tutto. 

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lunedì 14 marzo 2016

Massimo Parolini e "La Via Cava"

Massimo Parolini è un professore di lettere, laureato in filosofia all'Università Ca' Foscari di Venezia. Nato a Castelfranco Veneto (Treviso) nel 1967, dopo essere stato addetto stampa presso il Centro Universitario Teatrale di Venezia, ha collaborato come giornalista con diversi quotidiani trentini.
"La Via Cava", edita da LietoColle, casa editrice lombarda che si è ritagliata un posto di rilievo nella pubblicazione di testi poetici, è la seconda silloge dell'autore, "un breve tratto dell'anima che scorre verso la propria oasi".

È l'autore stesso, nella sua nota, a fornirci una chiave di lettura che permetta di comprendere il titolo dell'opera e ne funga da linea guida: "Cavo è il grembo che ci ha custodito dal concepimento alla nascita. Cava la culla che l'ha sostituito nei primi mesi di vita. Cava è la mano che stringo in segno di relazione, cava la mano che accarezza, che accoglie l'acqua che disseta e ci sostiene, cavo il pozzo da cui attingere l'acqua, il secchio che la raccoglie, il mestolo la coppa il bicchiere [...]. Cavo è il riparo che ospita l'uomo [...]. Cavo è l'organismo che ospita i nostri organi vitali [...]. Cava la terra che accoglie il seme e contiene le radici della pianta [...], cavo l'etcetera che contiene un elenco di nomi di forme cave possibili..."
Cavità, dunque, esprime un senso al contempo di assoluto e primordiale, e così dovrebbe essere, infatti, la poesia in genere: assoluta e primordiale.

Il viaggio attraverso i versi di Parolini offre numerosi spunti di riflessione, mentre il significato si arricchisce di forma, scandita da calligrammi che a più riprese recuperano il senso di quella via cava che si respira a partire dal titolo.
La concatenazione dei versi, che non appare mai casuale, rende difficile la citazione, che rischierebbe di vedersi svuotata nell'incompletezza. Ma azzardiamo un unico verso che, ad avviso di chi scrive, è significativo: "padre, nel sonno/riavvolge il nastro/molle alla memoria/-nude maschere d'ombra-/l'ingrato riflesso dei fatti/l'ora che ritorna/a dis_farsi/presente".
Si sarebbero potuti scegliere molti altri versi, ma la forza evocata da questa immagine appare stilisticamente emblematica del percorso seguito in quest'opera.
Percorso, peraltro, in cui si innestano omaggi a fondamentali personaggi dell'arte e della cultura, da Giotto a Van Gogh passando per Caravaggio, fino ad uno dei più grandi poeti del secolo scorso, Mario Luzi.

Inutile cimentarsi in una sinossi, ammesso abbia senso riassumere un'opera poetica. Basti qui concludere con l'unica cosa che realmente conta: ci troviamo dinanzi ad una nuova tessera nel mosaico della poesia contemporanea, che merita decisamente la lettura. 

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tutti i diritti riservati - credito immagine: copertina "La Via Cava" LietoColle, lietocolle.com 

martedì 8 marzo 2016

INTERVISTA A GIANNI MAROCCOLO



È una delle pietre miliari della musica italiana. Il suo basso ha scaldato i Litfiba, i CCCP, i CSI, i PGR, i Beau Geste. Ha lanciato i Marlene Kuntz. Ha lasciato il segno come pochi nel panorama musicale italiano degli ultimi 30 anni. Stiamo parlando di Gianni Maroccolo, impegnato oggi nella tournee “Vdb23 – Nulla è andato perso”, un viaggio emozionale in continua evoluzione, che sta toccando varie città italiane.
Oggi abbiamo l'onore di poterlo intervistare...

Il tuo presente appare carico di passato. Non un passato nostalgico, ma un "passato attivo". Il tuo riavvicinarti ai Litfiba e ai CSI, gli ultimi concerti e anche questo tour [che, ricordiamo ai nostri lettori, toccherà Vittorio Veneto sabato 19 marzo] che prende il nome dall'ultimo disco che hai scritto con Claudio Rocchi e che si è avvalso della collaborazione di molti grandi artisti che hanno segnato la tua storia personale.
Qual è il peso del passato nel futuro di un artista? E qual è il peso dell'aspettativa? Come ti poni, come artista, nel rapporto tra sguardo al passato e aspettativa del futuro?
"Può sembrare una banalità, ma credo che il nostro passato determini, nel bene e nel male, il nostro presente. Siamo "oggi" perché siamo stati "ieri". 
Personalmente non vivo di ricordi né di rimpianti. Mi volto spesso indietro per comprendere meglio i miei errori, per evitare di ripeterli, per provare a migliorarmi come persona, ma fondamentalmente per comprendere meglio il mio presente e quello che mi circonda. In linea di massima questo vale sia per l'uomo che per il musicista; anche perché, nel mio caso, è esattamente la stessa identica cosa. Dopodiché sono consapevole come musicista di aver prodotto in questi anni qualcosa di importante; credo di essere stato fortunato, ma lungi da me vivere sugli allori di ciò che è stato e che comunque non tornerà. Direi che aumentano le responsabilità e soprattutto lo stimolo a provare ad alzare sempre un po' l'asticella ogniqualvolta affronto un nuovo progetto.
"Nulla è andato perso" mette a fuoco in pieno il mio approccio alla musica, alla vita. Narra dell'arte dell'incontro, ricerca la condivisione emozionale... Se qualche anno fa mi avessero detto che avrei messo un mio concerto in scena mi sarei messo a ridere.
E invece sta accadendo grazie ad Andrea Chimenti, Beppe Brotto, Antonio Aiazzi, Simone Filippi, a cui devo davvero molto."


Quando ti ascolto ho l'impressione di essere un'isola che attende i doni di un mare dall'orizzonte infinito, a volte tormentato, a volte calmo.
Nella tua storia di vita esiste un rapporto con il mare, con l'elemento acqua. 
Puoi parlarci di questo rapporto e quanto, nel Gianni di oggi, lo senti ancora vivo?
"Il mare, l'acqua, le profondità sono parte di me. Il destino ha voluto cambiare le carte in tavola... Studiavo per diventare Capitano di Lungo Corso e attendevo di finire il Nautico per potermi imbarcare e girare il mondo. Ha preso il sopravvento, senza che io abbia fatto nulla perché ciò accadesse, l'altra mia grande passione: la musica. Ed è accaduto per puro caso. O forse no, perché forse "nulla avviene mai a caso". 
Nel mare, nel moto perpetuo delle onde, nelle maree, nella maestosità, nei venti, nel profumo dell'acqua... c'è molto di me e del mio modo di fare musica. Acau fu dedicato interamente a tutto questo."

Che impressione hai del panorama musicale italiano odierno? Vedi degli spiragli interessanti, dei gruppi da tenere d'occhio, o credi invece che certe logiche commerciali e certe rappresentazioni effimere, specie televisive, abbiano definitivamente sacrificato una pretesa di qualità ad altro?
"Credo che siamo in un periodo di profonda mutazione generale. Stiamo traghettando da un'epoca ad un'altra che ancora non riusciamo a mettere a fuoco. Un periodo estremamente doloroso e complesso per tutta l'umanità, dove a farne le spese sono, come sempre, i popoli più bisognosi. Nel suo piccolo, la musica, vive le stesse contraddizioni e difficoltà. Ma non mi sento di dire che "era meglio prima". Ogni periodo vive di elementi affini al contesto temporale perché ogni cambiamento radicale necessita di tempo per manifestarsi. Le logiche commerciali, i media, il mercato, le multinazionali, anche in passato non hanno mai considerato più di tanto la musica di qualità o comunque tutti quei tentativi di musica "diversa". Non mi stupivo ieri e non mi stupisco oggi, ma penso che dipenda un po' da tutti; il mercato ci propina sì e no il 10% della musica che viene prodotta e suonata nel mondo... beh andiamo a scoprire quel 90% !!! Scopriremo che la musica di qualità, la sperimentazione, lo spessore, si possono trovare eccome. Evitiamo l'eccessivo pessimismo... le avanguardie a breve usciranno dalle loro cantine e ci sarà da divertirsi. Se devo fare qualche nome beh... Iosonouncane - Pasquale Demis Posadinu - Andrea Andrillo."

Molti appassionati (mi ci metto anch'io) dicono che tu, come nessun altro, hai saputo "donare personalità" al basso. Uno strumento che in genere pare quasi restare in secondo piano nei concerti, se suonato da te ha acquisito una nuova veste in tutti i gruppi che hanno fatto parte della tua storia. C'è qualcosa in cui ti senti di assomigliare al tuo basso? Qual è l'aspetto della tua personalità che senti di riversare maggiormente nelle sue corde?
"Il mio basso è affidabile, non tradisce mai. Credo di essere simile a lui nella vita."

Infatti Gianni, non tradisci mai...

Le prossime date del tour di "Vdb23 Nulla è andato perso" sono:
11 marzo, Associazione Culturale Ohibò, Milano
12,13 marzo, Circolo Ribalta, Vignola (Modena)
19 marzo, Spazio MAVV, Vittorio Veneto (Treviso)

 tutti i diritti riservati - credito immagini: 1) giannimaroccolo.com, sito ufficiale Gianni Maroccolo; 2) copertina album Vdb23 Nulla è andato perso - la proprietà delle immagini appartiene ai rispettivi autori